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sabato 30 marzo 2013

Buona Pasqua


(poesia)


A chi crede in un Dio che non condanna,
ma dona amore e concede redenzione.
A chi, invece, brancola nel buio,
tormentandosi in cerca di risposte.
Per chi venera soltanto se stesso,
impassibile alle grida del mondo.
Per chi dona sempre un sorriso,
anche quando sorridere è una pena.
Ai potenti della terra e alle ultime creature.
Per chi dorme il sonno dei giusti
e chi veglia, funestato dai rimorsi.
Per chi condivide il mio peregrinare,
solo un attimo o una vita intera.
Agli amici del cuore, quelli che non ci sono più,
ma che un giorno spero di ritrovare…
Agli angeli sfioriti che mi donarono la vita;
all'amata sorella, così diversa da me,
della quale vorrei poter portare la Croce.
Per me stessa, che vado avanti incespicando,
senza arrendermi agli anni e agli affanni.
A chi ho ricordato e ai troppi che dimentico:
non auguro meraviglie, né gioie sublimi,
solo un po’ di pace, una briciola d’amore,
qualche inestimabile attimo di serenità.

venerdì 29 marzo 2013

Collage fotografico


Occhi inconsolabili

                                                (racconto-incipit)


         Sono venuto al funerale. C’è tutto il paese, a piangere il giovane fiore strappato alla vita.
“Un piccolo angelo innocente che il Signore ha voluto accanto a sé… ” 
sermoneggia il prete dall’altare, tra i miasmi nauseabondi dell’incenso e l’odore tenue delle rose spampanate.
Non credo nella consolazione di una vita ultraterrena. Come possono poche parole, biascicate con voce lamentosa, alleviare lo strazio di una madre? Il volto del bambino, sbattuto sui giornali e sui manifesti funebri, non mi ha devastato l’anima. Ma gli occhi di quella donna, spiragli aperti sul baratro di una mente prossima alla follia… quegli occhi mi si sono conficcati dentro, come un pugnale affilato nel cuore. Ho sentito un urto violento in mezzo al petto, ben più dirompente del tonfo attutito del corpicino che rotolava, sotto le ruote della macchina.

Ritanna dei gatti

(racconto-incipit)


            Già il nome era insolito, anche se in pochi lo ricordavano: solo i più anziani del paese, che l’avevano conosciuta da giovane. Si diceva che fosse bellissima ma selvatica come una gatta randagia, e che per quello nessun uomo l’avesse voluta per moglie. La chiamavano “gattara” e “signora dei gatti”; qualche ragazzino impietoso le strillava dietro l'epiteto di “vecchia strega”. Alcuni la deridevano, altri se ne sentivano intimoriti, i più la ignoravano. Lei non se ne curava e andava in giro a testa alta, trascinando per le vie polverose l’esile corpo ossuto, deformato dagli anni e dalla fatica, infagottato in tetre gramaglie.
Non parlava mai con nessuno e se qualche temerario incrociava i suoi occhi, distoglieva subito lo sguardo, atterrito, facendosi il segno della croce. Erano strani e inquietanti, quegli occhi: uno azzurro, limpido come il cielo, l’altro scuro e limaccioso, come il fango della palude. L’iride chiara ispirava dolcezza e serenità, ma la luce torva che balenava nell’altra minacciava oscure maledizioni. La evitavano tutti, per quanto potessero, ma a lei non importava: gli esseri umani le erano indifferenti, amava soltanto i suoi gatti e viveva per loro. 

Haiku




         

     Danza di giorni-

    sulle punte di raso

    scorre la vita.












                   Complice luna,

                     custodisce segreti


                     degli amanti.






    Il cielo piange-

    sgorgano dagli occhi


    lacrime mute.


mercoledì 27 marzo 2013

EdelWeiss

(romanzo-frammenti)


        “Caro Fabio, 
anche se non ho nulla da lasciare dietro di me, non  posso andarmene senza un commiato alla persona con la quale, nel bene e nel male, ho condiviso gli ultimi dieci anni della mia vita. Non è mia intenzione spiegare, scusarmi, accusare o perdonare. Non pretendo che tu comprenda, né che mi assolva. Il mio tempo si è esaurito, mi resta solo una cosa, da fare. Una cosa che avrei dovuto fare molto tempo fa: andare con lui. Lui mi aspetta. Non so dove sia, né dove mi porterà, ma non se ne andrà, senza di me. 
Ha promesso, ho promesso! Così deve essere e così sarà. Io e lui siamo stati una cosa sola, fin dal primo istante in cui ci siamo guardati negli occhi. Prima era il nulla e nulla ci sarà dopo. Solo un attimo d’eternità. Un istante che sublima una vita altrimenti vana. 
Non piangere, non piangete per me. Credo che nessuno, su questa terra, sia stato né potrà mai essere più felice di quanto sono stata io. Ho assaporato il paradiso, e sapevo che non sarebbe stato possibile tornare indietro. Né lo vorrei. 
Tra poco sarà tutto compiuto, non ci saranno altri ostacoli, a frapporsi fra me e lui. Saremo liberi, finalmente. Liberi dalle convenzioni, dalle ipocrisie, al di fuori del tempo e dello spazio che ci separano. 
Non rammaricarti per me, Fabio: io tra poco correrò nel sole…”
                                                                             ...


Ivan è rimasto immobile: non riesce quasi a respirare. Pochi passi lo separano da lei, può sentirne il profumo: una fragranza sottilmente avvincente, che lo stordisce. Dolce e delicata, ma penetrante. E’ bionda, con i capelli lunghi e ondulati, sciolti sulle spalle. Slanciata, di altezza media, esile e flessuosa, con delle morbide curve. Indossa un abito nero a piccoli fiori rosa, stile provenzale, lungo fino al ginocchio, aderente al busto tornito e alla vita sottile e leggermente svasato al di sotto dei fianchi. La visione di quel corpo lo turba: ciò che intuisce, più che vedere, gli  sembra di rara perfezione. Alla donna cade un libro e si china a raccoglierlo, piegandosi sulle ginocchia; il vestito sale a scoprirle le gambe, incredibilmente seducenti. Ivan deve appoggiarsi allo scaffale, per non cadere: l’emozione gli ha addirittura fatto perdere l’equilibrio. A fatica distoglie lo sguardo dalle splendide cosce e guarda più su. L’abito è piuttosto scollato, sorretto da due spallini sottili. Sotto la stoffa fiorita, prorompente, preme un seno da far invidia a una dea. Lo spettacolo inaspettato è  sconvolgente, tanto che il ragazzo non è in grado di tollerarlo. Si volta di scatto, dandole le spalle; respira profondamente, a occhi chiusi, con le tempie che gli martellano. Sente una dolorosa pulsione all’inguine: mein Got! E’ eccitato sessualmente! Non è riuscito a vedere il volto della donna, ma l’ha riconosciuta. L’ha riconosciuta subito, appena ha sentito la voce. E’ lei: è Angela! Solo che…no, non se n’era accorto, la prima volta! Era rimasto folgorato dal suo volto e non aveva neppure “visto” il resto. E’ bellissima! Straordinariamente bella…bella da far star male, bella da impazzire. Molto più bella della più bella delle divinità. Come può soltanto pensare che s’interessi a lui? Ivan vorrebbe lasciarsi scivolare sul pavimento e piangere, fino a perdere le forze…fino a morire.
                                                                           ...


Mentre scendeva le scale, era stata sorpresa dalla prima fitta, leggera, al ventre. S’era fermata, incerta, quasi incredula, aggrappandosi al corrimano. Fabio, ai piedi della scalinata di marmo, le stava sorridendo con ammirazione: <<Tesoro, sei sempre bellissima! Le farai scomparire tutte, quelle oche... moriranno d’invidia.>> L’istintivo sorriso che gli aveva rivolto s’era immediatamente trasformato in una smorfia di dolore, alla seconda fitta, stavolta lancinante, che l’aveva trapassata, bloccandole il respiro. Annientata dal dolore e dalla paura, Angela s’era lasciata lentamente scivolare a sedere sullo scalino, incapace d'emettere anche un solo lamento, nonostante gli spasmi fossero sempre più atroci. “Il bambino”, pensava, “il mio bambino...no, mio Dio...no!” Nel vederla accasciarsi in quel modo, senza un gemito, Fabio s’era spaventato ed era accorso da lei; l’aveva presa per le  spalle, cercando di scuoterla, terrorizzato dal pallore del suo volto. <<Angela, amore, che hai? Che ti succede?>> Lei gli aveva sollevato in faccia due occhi pieni di disperazione; con uno sforzo notevole, s’era fatta uscire un filo di voce, poco più d'un sussurro, che pure le costava una tremenda sofferenza: <<Il bambino, Fabio...sta succedendo qualcosa al bambino...>> Poi aveva letto l’angoscia nello sguardo di lui, che s’era spostato dal suo volto al grembo. Aveva abbassato gli occhi, a guardare lì dove sentiva uno strano, umido calore. L’abito bianco era intriso di sangue: il suo sangue. Angela aveva piegato la testa all’indietro ed era svenuta, tra le braccia del marito. Quando s’era risvegliata nel letto della clinica, prima ancora che il medico entrasse a parlarle, sapeva già che il bambino non c’era più.                                                       
                                                                             ...

 Ivan la posa delicatamente a sedere sul letto, la fa distendere e s’inginocchia tra le sue gambe aperte. Non gli sembra vero, quasi non ci crede: lei è lì, nuda, tra quelle lenzuola dove per tante, interminabili notti s’è torturato da solo a pensarla, a sognarla, a desiderarla...senza riuscire a prendere sonno. Adesso la sua bellissima dea, la sua dolce, piccola Edelweiss è tutta sua, sta tremando d’amore e di passione. Sbatte le palpebre, per essere sicuro che non si tratti di un sogno a occhi aperti. No, non sta sognando: Angela è proprio lì, nel suo letto, trepidante e smaniosa di fare l’amore con lui. Le accarezza i capelli, il volto; passa il palmo della mano sulle sue labbra dischiuse. Lei lo lambisce con la lingua, sospirando. Pazzo di desiderio, si china sulla bocca, vi affonda con la sua, assapora avidamente la lingua morbida, le labbra brucianti; scende a suggere il collo, i seni frementi, il ventre, l’interno delle splendide cosce. Lei geme sommessamente; solleva le ginocchia e gli appoggia entrambe le mani sulla testa, passandogli le dita tra i capelli e spingendolo con delicatezza verso il basso. 

                                                                                             ...


Torna a riprendere il coltello che aveva appoggiato sulla scrivania, si reca in bagno e accende i faretti che illuminano il grande specchio. Con la mano libera si ravvia i folti capelli biondi che le incorniciano il perfetto ovale del volto, scendendo in morbide onde fino alle spalle eleganti. Osserva la propria immagine riflessa: è pallida, con profonde occhiaie scavate dal pianto e le labbra esangui. Ma nel pallore eburneo gli occhi verde smeraldo risaltano, se possibile, ancora di più, e sembra perfino più bella. Il collo sottile, i seni turgidi sotto la seta leggera, la vita stretta e i fianchi ben modellati. Una bellezza senza tempo. Una creatura senza età che rasenta la perfezione di un angelo. Angela sorride all’immagine di se stessa che le rimanda lo specchio. Sì, è bellissima, e lo sarà per sempre per il suo Ivan. La bellezza, che è stata la condanna della sua vita, alla fine ha rappresentato la sua rivincita. Angela ha sfidato gli Dei e gli Dei si sono vendicati. Ma nessun Dio, ormai, potrà più separarla da Ivan. Alla fine ha vinto lei…hanno vinto loro due…ha vinto il loro amore. Accarezza il ciondolo con la stella alpina che tiene allacciato al collo. Sorride al suo io speculare, solleva il braccio sinistro all’altezza del volto e serra la mano chiusa a pugno, fin quasi a conficcarsi le unghie nel palmo, facendo guizzare i tendini dell’avambraccio. Nella mano destra regge saldamente il coltello. Un colpo secco, dall’alto verso il basso, di traverso lungo il polso. La lama penetra nella carne come fosse burro.

lunedì 25 marzo 2013

La colomba della Pace


La colomba svolazza impaurita nella gabbia dorata, sorretta con mani tremanti dal vecchio vestito di bianco. 
L’aspetto ieratico e le parole solenni, pronunciate in una lingua antica, le incutono timore, ma gli occhi sembrano frammenti di cielo e la voce risuona melodiosa come un cinguettio. 
Fragili dita, dalla pelle sottile e trasparente come il vetro, s’insinuano tra le sbarre e spalancano un insperato spiraglio di libertà. La colomba si sporge a guardare fuori, titubante. L’esultanza della folla che gremisce la piazza, delimitata da un imponente colonnato, si leva in canti e preghiere, tra un gioioso sventolio di ramoscelli d’ulivo.
-Vai… - la incoraggia il vecchio dalla voce di bambino, scuotendo con delicatezza la gabbietta. 
Esita ancora qualche attimo, si lancia nel vuoto e dispiega le ali immacolate a librarsi nel vento.
Migliaia di occhi seguono rapiti le sue evoluzioni, finché diventa un puntino nel sole. 
Una soave speranza di pace scende a rasserenare i cuori.

sabato 23 marzo 2013

Lasciatemi piangere


              (poesia)

Che cosa possono sapere, loro?
Scuotono il capo, mi commiserano
come se fossi una povera idiota.
“Era solo un gatto, in fondo… ”
In fondo a cosa? In fondo al cuore,
dove il dolore spezza il respiro?
Oppure in fondo ai pensieri,
dove i ricordi  scavano l’anima?
Che ne sanno, tutti quanti loro,
degli anni d’amore in cambio di niente,
dei sonni irrequieti cullati da fusa,
dei versi gioiosi per le risate
e degli stupori per le mie lacrime.
Che sanno, degli occhi d’ambra
colmi di fede, affondati nei miei,
mentre capiva di andare a morire…
e dello strazio di quell’addio,
che il tempo non può alleviare.
E a nulla vale la lieve illusione
che stia correndo felice, nel prato
dove finisce l’arcobaleno.
Non lo capiscono, non sanno capire…
almeno, mi lascino piangere in pace!

La goccia


(racconto breve)


Paolo spalanca gli occhi sulle lancette dell’orologio, fosforescenti nel buio: le tre di notte. Ci mette una frazione di secondo a capire cosa l’abbia svegliato. Trattiene il respiro e tende le orecchie: può udire distintamente il “plin, plin, plin“ delle gocce che cadono e si fondono in una piccola pozza. È un rumore insistente, che il suo cervello amplifica in un’eco sorda. Non sta piovendo, ma sa che non si tratta di quello. Non è nemmeno un rubinetto lasciato aperto o una perdita delle tubature. Ha consultato l’idraulico e fatto ispezionare l’impianto e la caldaia. Prima di coricarsi ha controllato che fosse tutto a posto. E lo era, come al solito. Il gocciolio continua, lento e ovattato per quanto sono alterati e disordinati i battiti del suo cuore. Stringe gli occhi e si concentra, spera che il rumore cessi. Inutile: non accenna ad arrestarsi né a mutare il ritmo ossessivo. Esasperato, getta di lato il piumone ed esplora il pavimento con i piedi, alla ricerca delle pantofole. Un brivido gli percorre la spina dorsale, non per il freddo provocato dall’abbandono del letto. È qualcosa d’irrazionale: è paura. Anzi, terrore allo stato puro. Si dà dell’idiota e cerca di calmarsi. Il fenomeno ormai si manifesta da mesi, sempre di notte. Ha vagliato ogni possibile spiegazione, senza venirne a capo. Ha pensato addirittura si trattasse di qualcosa di fisico, ma sia l’otorino sia il neurologo hanno escluso eventuali patologie. Lo psicologo ha ventilato l’ipotesi di una condizione di stress, forse uno stato depressivo. Assurdo! Paolo è pensionato, single e tranquillo dal punto di vista economico. Non ha parenti che lo assillano, né debiti con Equitalia e nemmeno complicate relazioni sentimentali. E non è un pazzo visionario. Il rumore lo sente perché, da qualche parte, c’è quella maledetta goccia che continua a cadere. Quello di cui è certo è che non può essere frutto dell’immaginazione: non sono i suoi neuroni che si stanno liquefacendo. La goccia c’è, e non è nella sua testa. Prima o poi ne scoprirà la provenienza; deve stare calmo e non farsi condizionare da paranoie assurde. Percorre tentoni il corridoio buio fino alla cucina; la luce lattiginosa del neon fuga le ombre dalla mente. Getta un’occhiata al miscelatore del lavello: chiuso, naturalmente. Scuote la testa, rassegnato: ormai non riuscirà a riprendere sonno. Si farà un caffè e continuerà a leggere l’ultimo libro che ha comprato. Con i tappi di cera nelle orecchie, così la goccia smetterà di massacrargli i timpani e il resto. Il suono lacerante di una sirena d’allarme, proveniente dalla strada, lo fa sobbalzare. Si volta di scatto e sbatte violentemente la tempia nello spigolo di un pensile, lasciato aperto. Si accascia come una marionetta dai fili spezzati. Un attimo prima che il dolore lancinante gli ottenebri la coscienza, intravede con la coda dell’occhio il rivolo di sangue che defluisce dalla ferita, insieme alla sua vita. E che gocciola sul pavimento. Plin, plin, plin… 

venerdì 22 marzo 2013

Mare da morire


(racconto breve)

L’ho sognato, stanotte. Mi salutava con la mano, dritto in piedi nel piccolo gozzo che usciva dal porticciolo, all’imbrunire. Ho aspettato che la barca si confondesse con la linea scura dell’orizzonte, poi sono tornata alla nostra casupola di pescatori. È rincasato all’alba; mi ha destata con la passione dei baci, cullata tra le braccia vigorose. Ho assaporato il sale sulle sue labbra, ho passato le dita tra i capelli scarmigliati dal vento. La mia pelle bianca ha tremato nel fondersi con la sua, arsa dal sole. Rideva, nel sogno: era felice. Raccontava della pesca fruttuosa e della benevolenza del nostro mare. Il mare che era la sua vita.
Mi sono risvegliata sola, nel letto troppo grande. Sono corsa al porto, anima persa nella notte. Mi sono inerpicata fino a sporgermi dall’orlo dello scoglio più alto, dove ogni sera ho pregato, scrutando le onde scure e minacciose e sperando che il mare lo rendesse a me.
L’ho maledetto, quel mare; ho chiuso gli occhi e mi sono lasciata cadere…


giovedì 21 marzo 2013

Rabbia

  
(poesia)

Arranca al buio la mia coscienza:
cupa la notte, più ancora i pensieri.
I disincanti abbaiati nel vento
rimbalzano inutili in fondo al cuore.
M’irride dall’alto, con occhi immondi,
un’accozzaglia di stelle silenti;
vorrei bestemmiarle, ma cosa vale
l’ingiuria sterile di chi non crede…
non c’è riscatto né appagamento,
non voglio pentirmi, non cerco perdono.
Non sento il bisogno di occhi pietosi,
di falsi abbracci, di vuote parole.
Basto a me stessa e al mio tormento,
mi nutro di rabbia, ne gusto sapore:
lacrime e fiele, ostili al palato,
 ma grato balsamo sul rogo dell’anima.

domenica 17 marzo 2013

Presentazione

Mi presento 
con un "nanoromanzo" di 10 parole.



Sul ghigno beffardo del Joker

scorrono lacrime tristi di Pierrot...