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domenica 10 giugno 2018

A un passo dalla felicità





   Ho commesso il peggiore peccato che si possa commettere.
Non sono stato felice.
Jorge Luis Borge


La fretta è la costante della tua vita. Vivi di corsa, a ritmo frenetico, per non perdere nulla o quasi. Ordine, organizzazione e autodisciplina sono gli imperativi che ti sei imposta per utilizzare il tempo nella maniera più proficua possibile e con un tollerabile dispendio di energie. Sei ore di sonno per notte: non ti serve altro, e quelle prodigiose pillolette prescritte dallo strizzacervelli ti permettono di sfruttarle al massimo, senza la zavorra dei sogni.
Questo gli avevi chiesto: di farti dormire, e lui si è meritato la parcella. Niente più sogni, niente incubi a turbare il riposo notturno, e di giorno non hai tempo da sprecare con i ricordi. Guardi avanti, sempre, non indugi a recriminare su ciò che lasci alle spalle; non hai tempo per rimorsi e rimpianti, grazie al Cielo!
No, è soltanto merito tuo, il Cielo non c’entra: l’hai bandito insieme alle speranze della gioventù, così come hai sepolto lo spauracchio dell’inferno sotto il tumulo dell’agnosticismo. Con la mente sgombra dalla superstizione e dai fantasmi, puoi pensare esclusivamente a te stessa. La vita, si sa, è una sola, e la tua vuoi viverla alla grande.

Stamani però la sveglia ti ha tradito; la regoli un’ora prima per espletare i piccoli riti maniacali che ti sono indispensabili per iniziare la giornata. Stamani, invece, la maledetta non ha suonato. Sei sicura che non abbia suonato. Ti svegli sempre al primo trillo, allunghi la mano per spegnerla e metti i piedi fuori dal letto, senza rimanere nemmeno un secondo di troppo a crogiolarti tra le lenzuola. Non ha suonato, lo giureresti su quello che hai di più caro, se avessi qualcosa che ti è caro. Quando hai spalancato gli occhi sulle lancette fosforescenti e ti sei resa conto che erano già le otto, una sferzata di adrenalina ti ha fatto scattare come una molla. Hai afferrato la trappola infernale e l’hai scagliata imprecando contro la parete. Non aveva suonato la maledetta, e non avrebbe suonato mai più.
Era tardi, dannatamente tardi. Niente doccia, niente quarto d’ora di rilassamento yoga, niente scorsa veloce ai notiziari web e alle quotazioni di borsa, niente colazione. Solo il tempo di vestirti in fretta e buttare giù un caffè con le tue pillole. Benzodiazepine per dormire sei ore e anfetamine per ruggire come una leonessa nelle altre diciotto: non ti serve altro. A quel medico dovresti erigere un monumento.
– Non ne abusi, – ti ha raccomandato - non superi i limiti prescritti. - e tu l’hai guardato con commiserazione, sforzandoti di non scoppiargli a ridere in faccia.
È da quando hai l’età della ragione che consideri i limiti come una sfida con te stessa e con il mondo. Non ci sono limiti che tu non possa superare, né ostacoli che non sia in grado di aggirare; non hai bisogno di stupidi consigli: sai gestirti benissimo da sola. Le pillole ti aiutano, ma puoi farne a meno in qualsiasi momento.
Non stamani, però: stamani quella maledetta sveglia non ha suonato e hai dormito troppo. Un’ora in più, un’ora del tuo preziosissimo tempo del quale adesso ti senti defraudata. I brontolii dello stomaco ti ricordano che non hai fatto colazione, e i muscoli delle spalle e delle braccia, ancora indolenziti, ti fanno rimpiangere la doccia calda che non ti sei potuta concedere. Ma era tardi, maledettamente tardi: questo ti diceva il cervello ancora istupidito dal brusco risveglio.
Hai preso un paio di pillole in più, dovevi farlo; che sarà mai, per una volta? Stamani sei pungolata dalla fretta; al diavolo le avvertenze e le controindicazioni dei bugiardini! Devi sciropparti venti chilometri di macchina, che sarebbero un’inezia se non fossero venti chilometri di tornanti scoscesi lungo la scogliera, a strapiombo sul mare.
Quando sei andata a vivere in collina, nel rustico ereditato da una lontana parente che nemmeno conoscevi, hai pensato di avere risolto gran parte dei tuoi problemi. Di giorno, per cinque giorni alla settimana, sei costretta a scendere in paese e rinchiuderti in un ufficio ammuffito; devi sopportare la gente: i paesani che conosci e detesti e i turisti occasionali che detesti ancora di più. Otto ore al giorno fra le scartoffie, ad ascoltare richieste assurde e subire lamentele di ogni genere, digrignando i denti in sorrisi forzati mentre avresti voglia di mandarli tutti al diavolo. Una tortura che riesci a tollerare solo grazie al pensiero della tua casetta isolata e silenziosa.
Non ti pesano quei venti chilometri: ti svegli sempre un’ora prima e fai tutto con calma. Ordine, organizzazione e autodisciplina; ma stamani non hai sentito la sveglia e il meccanismo perfetto si è incrinato.
Niente d'irrimediabile: un paio di pillole per svegliarti e acceleratore a tavoletta. Conosci a memoria ognuno di quei tornanti, li hai percorsi centinaia di volte, in tutte le stagioni e nelle peggiori condizioni di visibilità. Potresti guidare a occhi chiusi, sicura di non sbagliare una curva.
Allunghi la mano per cercare, nel vano porta oggetti, uno dei tuoi cd di musica classica; ascoltare a tutto volume il “Dies irae” di Karl Jenkins mentre guidi, è quello che ci vuole per rilassarti. Ti distrai appena un attimo per inserire il disco nel lettore e scorgi solo all'ultimo momento l'animale, forse una volpe, che attraversa la strada.
Sterzi e freni bruscamente: due manovre che non è mai opportuno abbinare. Senti le ruote che pattinano, vedi avvicinarsi lo strapiombo, capisci che tra poco farai un bel salto nel vuoto.
Eppure non hai paura, non vedi la tua vita passarti davanti agli occhi in un istante, non senti l'irrazionale bisogno di raccomandarti l'anima. Sai che non può finire così, non prima di avere assaporato la felicità che ti spetta di diritto. Hai fatto di tutto per conquistarla e ora te la meriti; non morirai per una stupida volpe che ti attraversa la strada, in un'anonima giornata che hai più fretta del solito.
Non ti lasci prendere dal panico, azzardi un'altra manovra con il sangue freddo di un pilota di formula uno. Affondi la frizione, scali la marcia e dai una sterzata secca per puntare verso l'intrico di cespugli e arbusti che delimita il burrone. Non hai idea se servirà a qualcosa, ma ormai non hai nulla da perdere. Anzi, hai da perdere la cosa più importante, la vita, ma non ci sono alternative. Ti convinci che funzionerà, deve funzionare.
Ti aggrappi al volante con entrambe le mani ma non chiudi gli occhi: vuoi vedere tutto, fino alla fine, se questa sarà la fine. L'impatto non è violento come ti saresti aspettata: non fa nemmeno esplodere gli airbag. La vettura adesso è ferma: la barriera vegetale è riuscita a frenarne la corsa.
Spegni il motore e trattieni il respiro per captare un cedimento, uno scricchiolio di rami che si spezzano, preludendo a una rovinosa caduta. Niente, solo il cigolio di uno pneumatico che gira a vuoto e la musica a tutto volume:
“Dies irae! Dies illa solvet saeclum in favilla...”
Scoppi a ridere: il giorno dell'ira, il giorno che il mondo si dissolverà in cenere, per te non è ancora arrivato. Sei stata fortunata. No, sei stata brava e hai saputo mantenere la padronanza dei nervi e fare la cosa giusta.
Sai sempre quale sia la cosa giusta e hai sempre fatto le scelte giuste nella vita, senza soffermarti a pensare a quello che dovevi sacrificare in cambio. Tutto è sacrificabile, quando la posta in palio è la felicità, e il primo passo per conquistare la felicità è sempre stato mantenerti libera da ogni vincolo, unico arbitro delle tue decisioni, senza impedimenti o costrizioni di sorta.
Hai pagato un prezzo alto, la solitudine e il biasimo dei benpensanti, ma te ne freghi. Stai bene da sola, stai bene con te stessa, sei felice. Quasi felice... a un passo dalla felicità. Non può andare tutto a rotoli per un banale incidente.
Scacci quel subdolo presentimento; pigi con stizza il tasto dell'off sul lettore musicale per interrompere il coro che annuncia il giorno del Giudizio e sganci la cintura di sicurezza. Devi uscire dall'abitacolo, prima che diventi la tua bara.
Respiri a fondo e cerchi di analizzare la situazione; l'auto è inclinata su un fianco, dal lato del passeggero, ed è trattenuta dai cespugli. Non sai quanto a lungo resisteranno quei rami, devi muoverti con estrema cautela. Provi ad aprire la portiera alla tua sinistra, esulti nel constatare che non incontri resistenza. Adesso devi spalancarla e saltare fuori. È rischioso, però è anche l'unica cosa da fare. Non indugi a riflettere, spingi con una spallata e ti butti di sotto.
L'impatto con il terreno ti procura fitte acute in tutto il corpo, ma il sollievo è più forte del dolore. Ti rialzi e realizzi di non esserti fatta nulla, salvo qualche escoriazione alle braccia e alle ginocchia. È andata perfino troppo bene, quasi non ci credi.
Pensi che dovresti recuperare la borsa e la cartella dei documenti che hai appoggiato come sempre sul sedile posteriore; una rapida occhiata alla macchina, in equilibrio precario sullo strapiombo, ti fa desistere dal proposito di avvicinarti. Non è il caso di sfidare la sorte una seconda volta, anche se quelle carte sono importanti contratti che devi perfezionare in giornata.
Se almeno potessi avvertire in ufficio che hai avuto un incidente... Ma no, hai lasciato il cellulare nella borsetta insieme ai soldi e agli effetti personali. Di solito lo riponi nel cruscotto e lo colleghi al viva voce, ma stamani eri in ritardo. Dannata fretta!
Non hai alternative: devi incamminarti a piedi sperando d'incontrare qualcuno e, in caso contrario, sciropparti la decina di chilometri che ancora mancano per arrivare in paese. Ecco, adesso avresti bisogno di un'altra pillola, ma naturalmente il flacone è rimasto in macchina. Non devi perdere la calma. Sei appena scampata a un pericolo mortale, non puoi infuriarti per un telefonino e una manciata di psicofarmaci.
Inspiri a fondo e trattieni l'aria nei polmoni per qualche istante, poi la soffi fuori con lentezza. Ripeti l'esercizio di respirazione, finché ti senti di nuovo rilassata.
Ignori gli abiti strappati e le calze rotte; riesci perfino a sorridere del sangue che sta cominciando a rapprendersi sulle ginocchia, mischiato alla polvere, e che non puoi tamponare perché non hai nemmeno un fazzolettino. T'inquieti un po' quando ti accorgi di esserti spezzata un tacco.
Tua madre sostiene che non c'è disgrazia senza sciagura. Hai sempre considerato demenziale quella frase, come la maggior parte delle massime e degli aforismi che ti propina la genitrice, ma adesso capisci che racchiude una profonda verità: nella disgrazia che ti è capitata, avere anche un tacco rotto rappresenta una vera sciagura.
Il pensiero di tua madre è una spina fastidiosa, e non capisci perché, dannazione, doveva ficcarsi nella testa proprio in questo momento. Non potevi tenerla a casa con te, dopo l'aggravarsi della malattia degenerativa che l'ha ridotta alla stregua di un vegetale. Da quanto tempo non vai a trovarla in clinica? Qualche mese, forse un anno... non ricordi.
Lavori tutta la settimana e nel week end hai il diritto di pensare a te stessa. Paghi fior di quattrini per non farle mancare nulla; dedicarle anche il poco tempo libero che ti rimane, sarebbe un sacrificio inutile e non farebbe alcuna differenza: lei ormai non ti riconosce nemmeno.
Non devi sentirti in colpa. Non vuoi sentirti in colpa. Non ti senti in colpa. I sensi di colpa sono una palude viscosa nella quale non ti sei mai lasciata impantanare. Sono superflui e non appartengono alla tua visione edonistica della vita.
È così breve la vita, ed è insensato credere o anche solo sperare in qualcosa che trascenda i limiti umani. Non siamo fatti della materia dei sogni, ma di carne e sangue; i pensieri e le emozioni sono frutto di connessioni neurologiche e secrezioni ghiandolari, non di una sorta d'infusione divina.
Sei al mondo per una mera causalità di geni e devi sfruttare ogni istante cercando la tua soddisfazione personale, perché il mondo, per te, finirà nell'attimo stesso in cui cesserai di respirare. Non ci sarà un giorno del Giudizio, non c'è alcun premio o castigo. L'inferno e il paradiso sono la vita stessa; dipende soltanto da te rifuggire l'uno e guadagnarti l'altro.
Sei così vicina a ottenere quello che desideri, per cui hai lavorato tanto e hai rinunciato a molte cose... Devi solo arrivare in ufficio, ristampare quei contratti e strappare la firma del cliente.
Te lo sei lavorato bene il fesso, hai usato ogni mezzo a tua disposizione, compreso il tuo corpo. È cotto a puntino, firmerebbe anche la propria condanna a morte pur di strusciarti ancora le sue viscide mani addosso. Quando si renderà conto di avere perso tutto sarà troppo tardi, ma non potrà intentare alcuna azione legale: quelle firme, apposte spontaneamente, lo inchioderanno alle sue responsabilità.
Peggio per lui: nel mondo dell'alta finanza non c'è posto per gli stupidi e nemmeno per i rimorsi. Otterrai una ricca provvigione e la promozione che aspetti da tempo; forse, addirittura, la direzione di una filiale importante. Sarà la svolta decisiva, niente potrà più fermarti. Devi solo raggiungere il paese prima che la banca chiuda o che quell'idiota si faccia venire qualche dubbio.
Hai già perso fin troppo tempo e non puoi permetterti di aspettare che passi qualcuno. Sfili le scarpe ormai inservibili e muovi qualche passo, stringendo i denti per il dolore alle articolazioni e il fastidio che le asperità dello sterrato ti procurano alle piante dei piedi. Non devi pensarci, tra un paio di chilometri troverai la strada asfaltata e le prime case del paese. Ricordi che c'è anche una locanda, poco più a valle; ti daranno una mano, magari un passaggio. Non hai molti amici, anzi, non ne hai nemmeno uno, ma la promessa di una lauta ricompensa ottiene qualsiasi favore.
Procedi spedita, rinfrancata dalla consapevolezza che l'increscioso contrattempo non intralcerà i tuoi piani; mentre cammini, riepiloghi mentalmente le mosse future. Otterrai le firme e sbatterai i contratti sul muso del direttore; avrai la tua rivincita per tutte le volte che quell’idiota ti ha messo i bastoni tra le ruote. Per paura, lo sai bene, per timore che lo scalzassi. Chiedere la sua testa sarà la prima cosa che farai; te la concederanno su un piatto d'argento, ti concederanno qualsiasi cosa.
Soldi, prestigio, potere... la felicità non è mai stata così vicina.
Dovresti esultare, invece ti accorgi che stai tremando. Tremi di freddo. Si è alzato un vento gelido e il cielo è gravato da nubi temporalesche; la visibilità è ridotta al minimo: sembra quasi notte, una brumosa e fredda notte invernale, rischiarata soltanto dai fulmini.
Com'è possibile? Un attimo fa splendeva il sole. Stamani non hai fatto in tempo a consultare le previsioni meteorologiche, ma è abbastanza strano un cambiamento così repentino in questa stagione. Ci manca solo che cominci a diluviare! Non riesci a vedere nulla, nemmeno dove metti i piedi. Hai perso l'orientamento e da qualche parte c'è lo strapiombo.
Calma, devi restare calma. Ti fermi e aspetti; ascolti il brontolio dei tuoni e il battito frenetico del tuo cuore. Un lampo accecante illumina la sagoma quasi spettrale di un edificio a poche decine di metri. La locanda, finalmente! Sapevi che non poteva essere lontana.
Corri nel buio, vai quasi a sbattere contro un muro; tasti con le mani finché incontri il legno del portone. Bussi con i pugni, chiami a gran voce, urli. Nessuna risposta, nessuna luce che si accende. Non c'è nessuno.
Non può esserci nessuno, adesso ricordi: la locanda è chiusa. Chiusa per fallimento. Ricordi anche la faccia congestionata del gestore, la sua voce incrinata dal pianto quando gli hai negato il prestito che gli avrebbe consentito di risollevarsi.
T'implorava, e tu pensavi che fosse un individuo senza dignità. Non potevi dargli quei soldi: la banca non è un ente benefico, negli affari non c'è posto per la compassione.
Rivedi gli occhi fiammeggianti di disprezzo, risenti la voce che ti maledice. In molti ti hanno maledetto: tutti quelli che hai rovinato con i tuoi “no” e quelli che hai ridotto sul lastrico, appioppandogli titoli e azioni ad alto rischio.
Al diavolo! Hai fatto solo gli interessi della banca, e naturalmente i tuoi; non provi rimorso. È il tuo lavoro, lo svolgi meglio di chiunque altro e presto otterrai i riconoscimenti che meriti.
I temporali estivi hanno breve durata; devi aspettare che passi e raggiungere il paese. Sei sfinita, muori dal freddo; ti accasci sullo scalino, abbracci le gambe e posi la testa sulle ginocchia. Presto sarà tutto finito, devi stare calma e recuperare le forze.
Un soffio nel collo ti fa sussultare. Non è il vento, è come un respiro, un leggero ansimare. C'è qualcuno accanto a te, forse un animale...
Adesso tremi di terrore, non hai il coraggio di aprire gli occhi, non osi quasi respirare.
– Ciao, Anna...
Un'emozione violenta ti fa balzare il cuore in gola; lo spavento ti paralizza. Quella voce, la sua voce...
– Allora, sei riuscita a trovare la felicità?
Marco! No, non è possibile, non può essere Marco. Marco è...
– Tu sei morto... – ansimi.
È morto, lo sai, è morto tanti anni fa. Sfracellato proprio in fondo a quel burrone. Un tragico incidente, anche se qualcuno ha cercato di addossartene la colpa. Le malelingue del paese dicevano che si era buttato per colpa tua, perché l'avevi lasciato dopo esserti liberata del bambino che aspettavate.
Che idiozia! Nessuno, sano di mente, si ucciderebbe per questo, e tu non potevi rinunciare alla tua vita per uno stupido errore. Forse lo amavi, forse stavi bene con lui, ma un figlio no, non lo volevi. Non così presto, non prima di avere realizzato i tuoi progetti. Saresti stata infelice per tutta la vita.
Hai fatto la scelta giusta, come sempre. Nessuno può biasimarti.
– Sei morto... – ripeti – vattene, lasciami in pace...
Una risata lugubre fa da eco alle tue parole. È troppo, più di quanto tu possa sopportare. Chiudi gli occhi e sprofondi nell'incoscienza...
La musica infernale ti riscuote:
“Dies irae! Dies illa solvet saeclum in favilla...”
Impieghi qualche istante per renderti conto che sei ancora nell'abitacolo, incastrata tra il sedile e l'airbag, imprigionata dalla cintura di sicurezza. Forse hai avuto un incubo mentre eri svenuta, o forse è vero che, quando si sta per morire, la vita intera ci passa davanti agli occhi.
Provi a liberarti senza riuscirci; il movimento incauto fa oscillare la vettura. Senti un fragore di rami schiantati, la macchina si capovolge, stai precipitando.
Adesso sai che oggi è davvero il giorno dell'ira.
Non provi nemmeno paura, non ne hai il tempo. Hai un solo rammarico: eri a un passo dalla felicità e non sei riuscita ad afferrarla.

venerdì 8 giugno 2018

La scelta

Immagine web.




Buttato in un letto d’ospedale come un sacco vuoto, reparto malati terminali: per il mondo sono già morto. Il dolore dilania le carni e ottenebra la coscienza. Non è questa la fine che voglio fare, cazzo!
Il terrore della morte scatena nella mente umana reazioni inimmaginabili, rappresenta il detonatore che fa esplodere l’istinto dell’animale in lotta per la sopravvivenza e lo trasforma in una belva. Chiunque darebbe qualsiasi cosa per non morire. Per me, invece, vivere è una condanna. Vivere in eterno è il peggiore degli abomini. Adesso lo so, ma ormai non ho scampo: ormai ho fatto la mia scelta, ho suggellato il patto e accettato la contropartita.

La prima volta fu esaltante: mi sentivo onnipotente, credevo di avere le redini del destino strette nel pugno. Invenzione grandiosa il libero arbitrio, il poter scegliere se vivere o morire, anche se il prezzo da pagare è la tua anima. Non m’importava, allora: avevo una seconda opportunità, un’esistenza nuova da assaporare e consumare giorno dopo giorno in un corpo giovane e vigoroso. Un corpo che mi apparteneva di diritto e del quale potevo disporre a mio piacimento.
Aveva vent’anni, la sua pelle puzzava di sperma e sudore; quell’afrore mi ferì le narici più del fumo acre che si levava dalla pira sulla quale stavo per essere arso vivo, condannato per omicidio e stregoneria.
- Darei l’anima pur di essere lui - implorai, e il mio Signore volle compiacermi.
Lo ritenni il compenso di un’intera esistenza spesa al suo servizio e non mi stupii che fosse così facile: un contratto stipulato sulla parola, senza cavilli o clausole ambigue e senza possibilità di recesso per nessuna delle due parti. Un patto stretto negli ultimi istanti di vita ma non estorto con l’inganno: ero consapevole e lo desideravo con tutto me stesso.
- Che cosa devo fare? – chiesi all’ombra scura evocata dalla supplica.
- Oh, è semplice, – rispose direttamente nella mia testa - basta che lo fissi per un attimo negli occhi. In cambio, la tua anima mi apparterrà.
“La mia anima è già dannata” pensai, “non sarà una gran rinuncia”.
Non presi nemmeno in considerazione l’idea di pentirmi e chiedere perdono dei peccati. Preferivo un inferno procrastinabile, piuttosto che un immediato purgatorio ove espiare le mie colpe, confidando nella misericordia divina. Soprattutto, preferivo vivere. Non ebbi esitazioni e non m’insospettì la generosità della ricompensa.
Se ci avessi riflettuto solo un istante, avrei dovuto chiedermi quale interesse avesse il demonio a offrirmi qualcosa, che per me rappresentava il bene più prezioso, in cambio di ciò che già possedeva; ma non avevo tempo da sprecare in disquisizioni filosofiche ed era tutto così facile: bastava dire di sì. Un monosillabo, e il fuoco terreno mi avrebbe risparmiato. Niente trucchi e niente inganni.
Dissi di sì. Fu il mio più grande errore.
Non provai pietà per quel ragazzo, come non ne avevo provata per le vergini sacrificate al mio Signore. Rideva nel godersi lo spettacolo del mostro sanguinario che di lì a poco si sarebbe contorto tra le fiamme; mi lanciava insulti e maledizioni insieme alla plebaglia eccitata dal mio supplizio.
Lo odiai: il rigoglio della sua giovane età era pari alla gretta ignoranza che gli trasudava dai pori. Che cosa ne avrebbe fatto della sua vita insulsa? Se non fossi stato legato al palo e sfinito dalle torture, sarei saltato giù dalla catasta e mi sarei avventato contro il suo collo per affondargli gli incisivi nella giugulare. L’avrei sgozzato a morsi come avevo fatto con quelle fanciulle e mi sarei inebriato del suo sangue caldo.
Non mi era possibile, ma potevo vendicarmi in ben altro modo e dovevo fare in fretta: sentivo già il crepitio delle fiamme sulla legna intrisa di pece e il fumo mi stava invadendo i polmoni.
- Ehi, tu, guardami! – gridai più forte che potei, chiamando a raccolta le ultime forze.
Mi guardò. Fu l’ultima cosa che vide con quegli occhi.

- Signor Alfredo, come si sente?
Sollevare le palpebre mi costa uno sforzo indicibile. Ho dolore dappertutto: l’ago della flebo conficcato in vena, a inoculare il cocktail di sostanze velenose della chemio, sembra uno stilo arroventato, e la mascherina dell’ossigeno pesa sulla faccia come un macigno. Uno schifoso cancro mi sta uccidendo da tre anni, da quando m’impossessai di questo vecchio corpo malato.
Non ebbi scelta: non c’era nessun altro con me, tranne il proprietario dell’utilitaria che mi aveva travolto mentre attraversavo sulle strisce. Era buio e non mi vide, o forse era troppo anziano per guidare e non ebbe la prontezza di frenare in tempo.
Quando scese dalla macchina e si chinò per cercare di soccorrermi, lo guardai e fui sconvolto dalla disperazione. La vita mi stava abbandonando, insieme al sangue che si allargava in una pozza sull’asfalto, e l’ombra scura era già lì a esigere il rispetto del patto: l’anima di quel disgraziato oppure la mia. Mi disgustava quel corpo in decadimento, avrei voluto poter scegliere qualcosa di meglio, ma stavo morendo e non c’era più tempo.
Fui tentato di chiudere gli occhi e lasciarmi portare via, ma l’istinto di sopravvivenza soverchiò la ragione. Per l’ennesima volta nel corso di tanti secoli, desiderai vivere con tutte le forze. Fui di nuovo accontentato.
- Guardami… - sussurrai al vecchio. Mi guardò, e io ereditai la sua carcassa con l’oscena bestia che la stava dilaniando.

- Signor Alfredo, riesce a sentirmi? – la voce dell’infermiera mi arriva ovattata come se provenisse da lontano, eppure ferisce le orecchie con la violenza di un maglio battuto sull’incudine. Non tollero più tutta questa sofferenza; la morfina che mi somministrano in dosi massicce, a intervalli sempre più frequenti, riesce ad alleviare lo strazio solo per pochi minuti; in compenso m’inebetisce, rendendomi simile a un vegetale. Da parecchi giorni, vivo in uno stato di sonno indotto, popolato da incubi alternati a brevi veglie confuse. Spesso non ricordo nemmeno chi sia né dove mi trovi, non riconosco le facce dei dottori e delle infermiere che si avvicendano intorno al mio letto. Questo è uno dei rari momenti di lucidità; devo approfittarne: so di non avere più tempo e forse, come ho sentito sussurrare da qualcuno, non ce la farò a superare la notte.
– Prova dolore? Vuole che le faccia un’altra iniezione? – insiste la donna.
Vorrei intimare alla deficiente di stare zitta e lasciarmi in pace: devo riflettere, per quanto me lo permetta la bestia; devo ricordare gli errori commessi, le vite miserabili che ho rubato, la solitudine e l’angoscia che mi hanno sempre accompagnato. Ne è valsa la pena? L’inferno sarebbe stato peggiore di tutto questo? Non è tanto la consapevolezza della dannazione ad angosciarmi, quanto l’ineluttabilità della resa, il dover ammettere di avere perso la partita. Mi sentivo simile a Dio e non sono null’altro se non un’anima perduta. Potrei annuire con un cenno del capo, lasciarmi fare quell’iniezione, addormentarmi e, forse, non svegliarmi più…
- Ti risveglierai all’inferno – mi sussurra all’orecchio l’ombra china sul mio capezzale.
Sussulto violentemente, scatto a sedere, strappo la mascherina dal naso e spalanco gli occhi. L’infermiera mi fissa sbigottita, poi stringe le labbra in una smorfia.
- Signor Alfredo, che sta facendo? Si calmi e si rimetta giù. Adesso chiamo il medico di turno e le diamo qualcosa contro il dolore.
- No... – sibilo. Socchiudo le labbra per ordinarle di guardarmi, ma esito.
Il mio tempo sta fluendo come la sabbia nella clessidra della vita; tra poco dovrò capovolgerla o per me sarà la fine. Studio la donna: è di bassa statura, pingue e goffa. L’improbabile rosso dei capelli, e la ragnatela di rughe che il fondotinta di marca scadente non riesce a nascondere, tradiscono la sua età. Sono inorridito, non posso immaginare di albergare in quel corpo. Una femmina, e vecchia, per giunta. È ancora vivida la memoria di tutte le esistenze sprecate in simulacri femminili, quando non ho avuto nessun’altra scelta e mi è toccato sopportare il sacrificio di vite assurde, votate al martirio. Vite inutili. Come quella volta…

Non mi era mai capitato di sentirmi così euforico; fino a pochi attimi prima languivo, intrappolato dentro un corpo ripugnante, nascosto dal saio monacale. L’avevo appena visto consumarsi sul rogo, quel corpo tanto detestato, responsabile del rancore che aveva scatenato le mie gesta immonde. Impazzivo per la gioia di essermene liberato.
Il sangue delle giovani sacrificate all’Oscuro non bastava a estinguere la mia sete, e celarmi nella pace del monastero diventava sempre più difficile. Quando erano venuti a prendermi, avevo provato una sorta di sollievo, non avevo neppure cercato di difendermi o negare. Mi ero affidato al mio Signore. Lui non mi aveva deluso.
Mi allontanai dalla piazza con l’odore della carne bruciata nelle narici e, nelle orecchie, le urla di quella che era stata la mia voce. Non provai rimorso, anzi: avrei ballato dalla felicità sulle gambe salde che sorreggevano il torso muscoloso. Una tempesta ormonale si abbatté sui miei sensi facendomi vacillare: adrenalina e testosterone insieme, in un miscuglio sconvolgente, mai provato prima. Il monaco deforme e impotente, che usava il suo ridicolo pene solo per la minzione, aveva lasciato il posto a un giovanotto pieno di vigore e libidine repressa.
Appoggiai la mano sull’inguine e mi esaltai nel sentire la prepotenza dell’erezione sotto la stoffa delle brache. Finalmente avrei potuto possedere una femmina, non mi sarei dovuto accontentare di ucciderla per profanare il suo corpo con le mani e con i denti. La voglia era incontenibile: dovevo trovare al più presto una donna sulla quale sfogarla.
Di sera, poche anime si avventuravano tra i vicoli del piccolo borgo medievale; incrociai due uomini che riconobbi come il fabbro e il suo aiutante, poi la vidi. Il proprietario del corpo aveva già adocchiato quella giovane e aveva cercato di avvicinarla senza successo. Era una ragazza timorata di Dio, così si diceva in giro, promessa in sposa fin dalla tenera età; usciva solo per andare in chiesa, accompagnata dalla madre o dalla sorella. Chissà perché, quella sera, vagava da sola nell’oscurità, rasentando i muri e facendosi luce con una lampada a olio.
Non persi tempo a cercare la risposta, né fui sfiorato dal sospetto che non fosse un caso fortuito; lo considerai un colpo di fortuna e la seguii. Lei avvertì la presenza alle sue calcagna, affrettò il passo, ma non le servì a nulla. Con poche falcate la raggiunsi e la ghermii alle spalle, premendole una mano contro la bocca per impedirle di urlare. La spinsi in un vicolo cieco e mi gettai su di lei; le strappai le vesti e la violentai con brutalità, indifferente alle sue implorazioni. Sopraffatta dalla paura e dal dolore, la ragazza svenne. Continuai ad abusare di quel corpo inerme con la foga di un animale, finché mi accasciai al suo fianco, esausto.
Fu una distrazione fatale: feci appena in tempo a vedere i suoi occhi velati di lacrime e sentii la mano, armata di una pietra, calarmi con violenza in mezzo alla fronte. Capii che stava sopraggiungendo la fine: l’ombra scura mi alitava sul collo il suo respiro di morte.
- Guardami – riuscii a dire alla ragazza, prima di stramazzare. Un istante dopo, ero già intrappolato nel suo corpo. Il corpo di una donna…

- Signor Alfredo, riesce a sentirmi? Vuole che chiami il medico?
La megera gracchia come un uccellaccio del malaugurio. Non sopporto l’idea d’imprigionarmi nel corpo di una femmina vecchia e petulante. Ci deve essere un’altra soluzione, un’altra possibile scelta, cazzo! Potrei dirle di chiamare quel fottuto medico, o chiunque altro voglia. Chiunque sarebbe preferibile a lei. Sì, posso dirglielo, adesso glielo dico…
Apro la bocca, inspiro per farmi uscire le parole, ma una lama mi trapassa il diaframma. Lurida bestia! I viscidi tentacoli delle metastasi hanno ormai invaso ogni cellula dello scheletro ricoperto di pelle rinsecchita; il dolore aggredisce anche l’estrema delle terminazioni nervose con la violenza di una frustata. Non ce la faccio nemmeno a respirare, come potrei formulare una frase di senso compiuto? Annuisco con la testa, ma la donna, dopo avermi sospinto di nuovo in posizione supina, si china a controllare l’ago della flebo e non se ne accorge. Stupida baldracca! Non posso prendere il suo corpo. Non voglio.
Non avrei voluto nemmeno quella volta; non ebbi possibilità di scelta…

Allargai le dita e lasciai cadere la pietra. Guardai il giovane riverso a terra con la testa fracassata: era morto. Il superbo involucro che avevo preteso al prezzo della dannazione, adesso giaceva inanimato. Con raccapriccio, mi resi conto di trovarmi proprio nel corpo di quella ragazza, la stessa che avevo violentato.
Insieme alla consapevolezza, arrivò il dolore. Ero sporco di fango, con la pelle lacerata da graffi e morsi e tumefatta da lividi violacei. Mi doleva ovunque, soprattutto nella zona del pube. Passai una mano sotto la veste e tastai laggiù, nella piaga squarciata e umida che, con disgusto, compresi essere il mio sesso; la ritrassi lorda di sangue, il sangue dell’illibatezza.
Se non fosse stato grottesco, l’avrei trovato perfino divertente: nell’arco di poche ore, un monaco criminale si era trasformato in un giovanotto infoiato, per ritrovarsi nei panni di una vergine deflorata. Per il breve tempo che ero stato un giovane villano, mi ero preoccupato di soddisfare un bisogno impellente; ora mi rendevo conto che, insieme ai corpi, conservavo anche la memoria delle mie vittime. La ridda dei loro ricordi s’intersecava con i miei: in un istante, conobbi la vita di quella giovane.
Era uscita con il buio per recarsi dallo speziale, sfinita, più che convinta, dalle suppliche della sorella che da un po’ di tempo non vedeva i suoi sanguinamenti. Le aveva parlato di come certe radici, mischiate tra loro, avrebbero potuto restituirle la virtù.
– Devi andarci tu, – la supplicava – sei più piccola e darai meno nell’occhio.
Alla fine la malcapitata cedette per non doverla più sentire piangere una notte dopo l’altra, soffocando i singhiozzi nel guanciale. Quando percepì i passi pesanti dietro di sé, affrettò i suoi e si raccomandò a Dio, ma non fu ascoltata; la foga brutale dell’assalitore vanificò il tentativo di fuga. Sentì un dolore lancinante, come di un coltello che affondava nel ventre, e perse conoscenza.
Non avrebbe mai immaginato di poter ammazzare qualcuno, non riusciva nemmeno a guardare, mentre sua madre tirava il collo a un pollo o sventrava un coniglio. Eppure, una volta ripresi i sensi, provò una furia cieca, tale da indurla ad afferrare una pietra e spaccare in due la testa di quel mostro. Non ebbe il tempo di pentirsene: il mio Signore, grazie al nostro patto, ghermì la sua anima. A me rimase un corpo di fanciulla usurpato.
Tornai in quella che adesso era la mia casa, mi ripulii alla meglio e mi ficcai nel pagliericcio. Alla sciagurata che con i suoi piagnistei aveva decretato la mia rovina tornò il mestruo; io, invece, non vedevo nulla, un mese dopo l’altro. Il corpo di donna che detestavo con tutte le forze si modificava, lievitava come una pagnotta; le oscene escrescenze delle mammelle gonfiavano.
Capii con raccapriccio di essere gravido. Lo capirono anche coloro che pensavano di essere i miei genitori. Per nascondere la vergogna, fui rinchiuso in un convento, dove partorii fra atroci sofferenze l’essere che da nove mesi cresceva nelle mie viscere. L’avevo odiato fin dal primo istante, lo detestavo con tutto me stesso. La notte stessa trascinai il corpo spossato fino alla culla, afferrai il neonato e gli conficcai i denti nel collo. Il mio Signore si compiacque di quel sangue innocente; io fui ritenuto pazzo e gettato in una cella, dove rimasi a languire per un’intera, interminabile vita, maledicendo ogni istante la mia natura di donna.
Desiderai in numerose occasioni di farla finita e suicidarmi, ma ogni volta l’ombra nera incombeva su di me a ricordarmi il patto: se mi fossi ucciso, gli avrei consegnato l’anima. In punto di morte, m’impadronii di uno dei miei carcerieri e giurai a me stesso che non sarei ricaduto in quel tragico errore; ma, come mi resi conto nelle vite successive, non ero padrone del destino: la scelta era sempre obbligata da un disegno che trascendeva la mia volontà.

Mi volto verso il demone e cerco di guardarlo negli occhi; scorgo soltanto un bagliore rossastro nell’ombra nera del volto. Rabbrividisco. So che legge i miei pensieri e mi parla nella mente.
- Non lei, – supplico – non questo corpo osceno. Voglio scegliere, stavolta.
- Oh, puoi farlo. Alzati dal letto ed esci da questa stanza – mi schernisce. – Fuori dalla porta, ci sono decine di persone: potrai impadronirti di quella che ti sarà più gradita.
Maledetto demonio: si sta prendendo gioco di me. Sa che sono un vecchio in fin di vita e non troverei mai la forza di alzarmi. Non posso andare a cercare qualcun altro, non posso scegliere.
Non ho mai potuto scegliere, tranne la prima volta. È stata quella l’esca con la quale il maligno mi ha avviluppato nella sua rete. Non sono mai stato padrone del destino, ha sempre e solo deciso lui, mi ha manovrato come una marionetta e si è servito di me per perseguire i suoi fini. Ho commesso le azioni più atroci in ognuna delle mie vite, ma a dirigere la regia c’era sempre lui: io non ero che una comparsa. Mi ha ingannato con l’illusione dell’immortalità: non si è limitato a gravare di un’ipoteca la mia anima, ma si è preso senza alcuno sforzo anche quelle delle vittime da lui già designate. Ciascuna di esse si era macchiata di colpe che non aveva avuto il tempo di riparare. Adesso è tutto chiaro: ho voltato la carta e svelato l’inganno.
- Basta, – mi ribello – non vivrò un’altra vita miserabile per rendermi ancora strumento delle tue nefandezze. Voglio recedere dal contratto, voglio morire, finalmente. Prendi pure la mia anima: nessun inferno sarà peggiore di quest’abominevole farsa.
- Ne sei proprio sicuro? – replica. – Allora guarda… - solleva un braccio, indica un punto della stanza.
Giro lo sguardo e, in un attimo, mi passano davanti agli occhi le mie vite, i delitti commessi, le anime che ho derubato dei corpi e le altre che ho violato, ingannato, ucciso senza misericordia. Gridano tutte insieme contro di me come ossessi; le loro urla mi esplodono nel cervello. Porto le mani alle tempie, serro le palpebre per non vederle più; un bagliore accecante mi folgora, vedo me stesso in mezzo alle fiamme, moltiplicato nei corpi che ho carpito, e tutti urlano e si dimenano, torturati da un fuoco che arde senza consumarli.
Quello è l’inferno dove brucerò per l’eternità.
- Oh, Dio… - mormoro, annichilito dal terrore.
- È troppo tardi per implorare quel nome – sghignazza l’ombra. – Avresti dovuto farlo la prima volta, e ti saresti salvato. Ora appartieni a me: conosci i termini del contratto. Devi solo decidere se vuoi consegnarmi la tua anima adesso o se preferisci vivere ancora. E devi deciderlo in fretta: non hai più tempo.
Non ho più tempo, lo so: sento le forze che mi abbandonano, il respiro che si affievolisce. Devo decidere subito, non c’è altra scelta. Non c’è mai stata. Adesso lo so. Piango. Una preghiera m’increspa le labbra, una preghiera che nessuno ascolterà.
- Signor Alfredo, ma lei sta delirando – l’infermiera è china su di me, mi fissa preoccupata. – Ha invocato Dio. Desidera confessarsi? Vuole che mandi a chiamare un frate della cappella?
Se ne avessi la forza, l’azzannerei alla gola per arginare quel fiume di parole. Vecchia troia, inutile come tutte le donne. E io, adesso, dovrei… no, cazzo! Non lei, non un’altra stupida, ripugnante femmina. Scoppio in una risata sguaiata che acuisce gli spasimi di dolore. Il frate, che idiozia: nessun frate potrebbe aiutarmi. Non ho scampo. E non ho nessun’altra scelta.
Le artiglio una mano, la fisso negli occhi: - Guardami! – intimo, e il mio inferno sulla terra ricomincia a bruciare.