La sua auto!
Riconoscerebbe il rumore tra mille. Si scuote dal torpore ovattato
che l’ha fatto sonnecchiare per tutto il giorno, si alza e si
stira. I sensi sono allertati, ma le ossa dolenti e i muscoli
rattrappiti tradiscono le stagioni trascorse. Un tempo non era così:
appena la sentiva arrivare, scattava come una molla e in una
frazione di secondo era accanto alla porta.
Eccola, apre il portone e
comincia a salire le scale. Il passo è pesante, strascicato, come
sempre quando torna dal lavoro. Lavoro: non sa bene che significhi
quella parola. Sa che è qualcosa che la tiene per molto tempo
lontano da lui e la rende stanca, affaticata, a volte irritata. Ma sa
che è importante per entrambi, perché le permette di trovare il
cibo delizioso che gli mette nel piatto quando ha fame, di riscaldare
la casa in inverno e di portarlo dal dottor Luigi, così “gentile e
simpatico”. E sa anche, perché glielo sente ripetere spesso, che
il lavoro è una benedizione, un dono del Signore in tempi di crisi
e disoccupazione. Ignora il significato di quei concetti e non sa chi
sia il “Signore”: non ricorda di averlo mai visto, nella loro
piccola dimora. Ha conosciuto l’idraulico, l’elettricista, la
dirimpettaia e un paio di amici che si sono fatti vivi solo due o tre
volte, per poi sparire. Ma quel Signore tanto spesso invocato, nulla
di nulla.
Lei è già a metà della
rampa di scale: riesce a percepire il suo odore particolare, diverso
da quello di tutti gli altri esseri viventi. Comincia a chiamarla,
prima piano, poi con insistenza; lei accelera il passo, sale gli
ultimi scalini quasi di corsa. Adesso è sul pianerottolo, infila la
chiave nella serratura, apre la porta. E la sua voce, che ama più di
ogni altra cosa del suo piccolo universo:
«Amore mio, sto
arrivando!»
Entra nella stanza come
un vento di primavera, fresco e saturo di profumi; posa per terra tre
o quattro sacchetti colorati. Ritrovarla è ogni volta un’emozione
nuova. E’ bella, piena di vita, alta fin quasi a sfiorare il
soffitto della mansarda. Il cuore gli scoppia nel petto, tanta è la
gioia di vederla. Si strofina alle sue scarpe e si rotola sul
pavimento; l’organo nascosto nella gola comincia a gorgogliare
rumorosamente: le dice che gli è mancata e che è felice di vederla.
Lei si piega sulle ginocchia, gli passa la mano sul ventre in tenere
carezze, lo gratta con le unghie sotto il collo e dietro le orecchie.
«Silver, piccolo, non
devi miagolare così forte ogni volta che torno a casa! I vicini
potrebbero pensare che ti maltratti e chiamare la protezione
animali».
Adora gli strani versi
squillanti che le escono dalla bocca aperta: sa che quel fenomeno si
chiama “ridere”, ed è una cosa buona, perché indica uno stato
d’animo positivo. Non la sente ridere spesso, anzi, è più
frequente che dai suoi grandi occhi scuri rotolino quelle piccole
perle trasparenti e liquide che si chiamano lacrime. Ma stasera
niente lacrime: stasera la sua mammina è in quel magico stato di
grazia che risponde al nome di felicità. Peccato abbia già smesso
di coccolarlo: sembra presa da una sorta di frenesia. Si è rialzata
e ha posato le borse sul tavolo, un attimo prima che lui vi balzasse
sopra e ficcasse il muso dentro.
«Silver, monello! Ti ho
mai detto che la curiosità uccise il gatto?»
Ride di nuovo, mentre lo
spinge delicatamente da parte per tirare fuori la spesa. Sì, quella
frase gliel’ha sentita ripetere centinaia di volte, anche se gli
sfugge il significato. Sa solo che il gatto è lui e Silver è il suo
nome. Sa anche che lei non è proprio la sua vera mamma, della quale
conserva un ricordo vago come un sogno. Un corpo accogliente di pelo
caldo da cui succhiava un nettare dolce e ristoratore, e una lingua
ruvida che lo lambiva, mentre annaspava al buio per farsi largo tra i
corpicini di altre creature, minuscole e indifese come lui. Era
troppo piccolo, non ricorda altri particolari, ma non ha dimenticato
il primo incontro con la sua seconda mamma, quella definitiva. Glielo
avevano messo tra le mani che era poco più di un batuffolo peloso;
tremava di paura e aveva cominciato a miagolare. Lei l’aveva
stretto delicatamente, se l’era avvicinato al viso e l’aveva
baciato sulla testolina, sussurrando parole incomprensibili con voce
calda e suadente. Poi i loro occhi si erano incontrati, quelli
giallo-verdi del piccolo felino e quelli castano-dorati della giovane
donna, e le loro anime si erano fuse. Era stato amore a prima vista,
totale e incondizionato.
«Sei una meraviglia,
piccolino! Il tuo pelo sembra argento vivo.»
Così l’aveva chiamato
Silver. Da allora si sono alternate molte stagioni: Silver se ne
rende conto dai suoi riflessi, che sono diventati lenti, e da qualche
doloretto sempre più fastidioso. Ma anche dai fili bianchi che sono
comparsi tra i riccioli scuri della mamma e dalla ragnatela di
piccole rughe che le contorna gli occhi. Non sa che quello significa
invecchiare, ma sente di essere molto vicino alla fine della sua
meravigliosa avventura: ultimamente è stanco e ha perso la sua
proverbiale curiosità. Sarebbe bello rimanere per sempre in uno dei
suoi sogni colorati, pieno di topolini dispettosi con i quali giocare
a rincorrersi. Ma la mamma non c’è, in quei sogni, e non può
lasciarla sola. Gliel’ha promesso la prima volta che ha visto
sgorgare le perle lucenti dai suoi occhi: aveva allungato una zampa
per cercare di catturarle e se ne era sentito inumidire i
polpastrelli. Lei se l’era stretto al petto, sospirando:
«Silver, cucciolo mio,
meno male che ci sei tu. Sei l’unico amore della mia vita. Non mi
lascerai mai, vero?»
L’aveva fissata con i
suoi occhi da sfinge, poi le aveva sfiorato le labbra con il nasino
umido, suggellando con un bacio il patto d’amore che non avrebbe
avuto mai fine.
Le loro vite, così diverse, sono trascorse per molti
anni in perfetta simbiosi. E stasera Silver sa che c’è qualcosa di
diverso. Lo sente nell’aria, lo percepisce dalla sua voce, lo legge
nei suoi occhi.
«Amoruccio, dai, vieni a
mangiare la tua pappa, che la mamma ha da fare. E’ tardi e devo
preparare la cena. Stasera viene il dottor Luigi…»
Ha lasciato la frase a
metà e si è seduta su una sedia. Le balza in grembo, si acciambella
e lei comincia ad accarezzarlo; ha un’espressione sognante:
«Sai, ci siamo
incontrati al supermercato. Aveva il carrello pieno di cibi precotti,
roba da single, un po’ come il mio. Mi ha chiesto di te, come stai,
e allora mi sono buttata: gli ho detto che, se voleva, poteva venire
a farti una visita a domicilio. L’ho invitato a cena. Sono stata
impulsiva, lo so, ma le parole mi sono uscite dalla bocca senza che
me ne rendessi conto. Lui ha accettato subito, sembrava piacevolmente
sorpreso. Oh, Silver, chi l’avrebbe detto che il tuo veterinario mi
avrebbe fatto battere di nuovo il cuore? Quando siamo usciti, mi ha
offerto un aperitivo; ci siamo seduti a un tavolo del bar e abbiamo
parlato. Abbiamo tante cose in comune, sai? Anche lui è solo da
molti anni e adora i gatti. Si è fatto coraggio e mi ha confessato
che gli sono piaciuta fin dalla prima volta che siamo andati al suo
studio. Ha detto che sono diversa dalle altre, che con me si trova a
suo agio, che sente che posso capire la sua solitudine e condividere
i suoi interessi. E ha detto che sono bella! Capisci, Silver? Bella io! Erano anni che nessuno mi diceva che sono bella. Beh, sarò
un’incosciente, ma ho deciso di fidarmi di lui. Forse è la mia
ultima occasione: forse Luigi è un dono del Signore. Che ne pensi,
Silver?»
Silver si crogiola beato,
fa le fusa, si gode le carezze. E’ contento che il Signore si
sia finalmente fatto vivo, anche se per mezzo di un’altra persona.
Chissà, forse aveva troppe cose cui pensare, troppi doni da
elargire, e ha mandato il dottor Luigi; ma va bene anche così. E’
una cosa buona, perché la mamma è felice. Pensa che adesso potrà
finalmente addormentarsi sereno e sognare un prato di erba verde e
profumata, con tanti topolini bianchi da rincorrere.