Buttato
in un letto d’ospedale come un sacco vuoto, reparto malati
terminali: per il mondo sono già morto. Il dolore dilania le carni e
ottenebra la coscienza. Non è questa la fine che voglio fare, cazzo!
Il
terrore della morte scatena nella mente umana reazioni
inimmaginabili, rappresenta il detonatore che fa esplodere l’istinto
dell’animale in lotta per la sopravvivenza e lo trasforma in una
belva. Chiunque darebbe qualsiasi cosa per non morire. Per me,
invece, vivere è una condanna. Vivere in eterno è il peggiore degli
abomini. Adesso lo so, ma ormai non ho scampo: ormai ho fatto la mia
scelta, ho suggellato il patto e accettato la contropartita.
La
prima volta fu esaltante: mi sentivo onnipotente, credevo di avere le
redini del destino strette nel pugno. Invenzione grandiosa il libero
arbitrio, il poter scegliere se vivere o morire, anche se il prezzo
da pagare è la tua anima. Non m’importava, allora: avevo una
seconda opportunità, un’esistenza nuova da assaporare e consumare
giorno dopo giorno in un corpo giovane e vigoroso. Un corpo che mi
apparteneva di diritto e del quale potevo disporre a mio piacimento.
Aveva
vent’anni, la sua pelle puzzava di sperma e sudore; quell’afrore
mi ferì le narici più del fumo acre che si levava dalla pira sulla
quale stavo per essere arso vivo, condannato per omicidio e
stregoneria.
-
Darei l’anima pur di essere lui - implorai, e il mio Signore volle
compiacermi.
Lo
ritenni il compenso di un’intera esistenza spesa al suo servizio e
non mi stupii che fosse così facile: un contratto stipulato sulla
parola, senza cavilli o clausole ambigue e senza possibilità di
recesso per nessuna delle due parti. Un patto stretto negli ultimi
istanti di vita ma non estorto con l’inganno: ero consapevole e lo
desideravo con tutto me stesso.
-
Che cosa devo fare? – chiesi all’ombra scura evocata dalla
supplica.
-
Oh, è semplice, – rispose direttamente nella mia testa - basta
che lo fissi per un attimo negli occhi. In cambio, la tua anima mi
apparterrà.
“La
mia anima è già dannata” pensai, “non sarà una gran rinuncia”.
Non
presi nemmeno in considerazione l’idea di pentirmi e chiedere
perdono dei peccati. Preferivo un inferno procrastinabile, piuttosto
che un immediato purgatorio ove espiare le mie colpe, confidando
nella misericordia divina. Soprattutto, preferivo vivere. Non ebbi
esitazioni e non m’insospettì la generosità della ricompensa.
Se
ci avessi riflettuto solo un istante, avrei dovuto chiedermi quale
interesse avesse il demonio a offrirmi qualcosa, che per me
rappresentava il bene più prezioso, in cambio di ciò che già
possedeva; ma non avevo tempo da sprecare in disquisizioni
filosofiche ed era tutto così facile: bastava dire di sì. Un
monosillabo, e il fuoco terreno mi avrebbe risparmiato. Niente
trucchi e niente inganni.
Dissi
di sì. Fu il mio più grande errore.
Non
provai pietà per quel ragazzo, come non ne avevo provata per le
vergini sacrificate al mio Signore. Rideva nel godersi lo spettacolo
del mostro sanguinario che di lì a poco si sarebbe contorto tra le
fiamme; mi lanciava insulti e maledizioni insieme alla plebaglia
eccitata dal mio supplizio.
Lo
odiai: il rigoglio della sua giovane età era pari alla gretta
ignoranza che gli trasudava dai pori. Che cosa ne avrebbe fatto della
sua vita insulsa? Se non fossi stato legato al palo e sfinito dalle
torture, sarei saltato giù dalla catasta e mi sarei avventato contro
il suo collo per affondargli gli incisivi nella giugulare. L’avrei
sgozzato a morsi come avevo fatto con quelle fanciulle e mi sarei
inebriato del suo sangue caldo.
Non
mi era possibile, ma potevo vendicarmi in ben altro modo e dovevo
fare in fretta: sentivo già il crepitio delle fiamme sulla legna
intrisa di pece e il fumo mi stava invadendo i polmoni.
-
Ehi, tu, guardami! – gridai più forte che potei, chiamando a
raccolta le ultime forze.
Mi
guardò. Fu l’ultima cosa che vide con quegli occhi.
-
Signor Alfredo, come si sente?
Sollevare
le palpebre mi costa uno sforzo indicibile. Ho dolore dappertutto:
l’ago della flebo conficcato in vena, a inoculare il cocktail di
sostanze velenose della chemio, sembra uno stilo arroventato, e la
mascherina dell’ossigeno pesa sulla faccia come un macigno. Uno
schifoso cancro mi sta uccidendo da tre anni, da quando m’impossessai
di questo vecchio corpo malato.
Non
ebbi scelta: non c’era nessun altro con me, tranne il proprietario
dell’utilitaria che mi aveva travolto mentre attraversavo sulle
strisce. Era buio e non mi vide, o forse era troppo anziano per
guidare e non ebbe la prontezza di frenare in tempo.
Quando
scese dalla macchina e si chinò per cercare di soccorrermi, lo
guardai e fui sconvolto dalla disperazione. La vita mi stava
abbandonando, insieme al sangue che si allargava in una pozza
sull’asfalto, e l’ombra scura era già lì a esigere il rispetto
del patto: l’anima di quel disgraziato oppure la mia. Mi disgustava
quel corpo in decadimento, avrei voluto poter scegliere qualcosa di
meglio, ma stavo morendo e non c’era più tempo.
Fui
tentato di chiudere gli occhi e lasciarmi portare via, ma l’istinto
di sopravvivenza soverchiò la ragione. Per l’ennesima volta nel
corso di tanti secoli, desiderai vivere con tutte le forze. Fui di
nuovo accontentato.
-
Guardami… - sussurrai al vecchio. Mi guardò, e io ereditai la sua
carcassa con l’oscena bestia che la stava dilaniando.
-
Signor Alfredo, riesce a sentirmi? – la voce dell’infermiera mi
arriva ovattata come se provenisse da lontano, eppure ferisce le
orecchie con la violenza di un maglio battuto sull’incudine. Non
tollero più tutta questa sofferenza; la morfina che mi somministrano
in dosi massicce, a intervalli sempre più frequenti, riesce ad
alleviare lo strazio solo per pochi minuti; in compenso m’inebetisce,
rendendomi simile a un vegetale. Da parecchi giorni, vivo in uno
stato di sonno indotto, popolato da incubi alternati a brevi veglie
confuse. Spesso non ricordo nemmeno chi sia né dove mi trovi, non
riconosco le facce dei dottori e delle infermiere che si avvicendano
intorno al mio letto. Questo è uno dei rari momenti di lucidità;
devo approfittarne: so di non avere più tempo e forse, come ho
sentito sussurrare da qualcuno, non ce la farò a superare la notte.
–
Prova dolore? Vuole che
le faccia un’altra iniezione? – insiste la donna.
Vorrei
intimare alla deficiente di stare zitta e lasciarmi in pace: devo
riflettere, per quanto me lo permetta la bestia; devo ricordare gli
errori commessi, le vite miserabili che ho rubato, la solitudine e
l’angoscia che mi hanno sempre accompagnato. Ne è valsa la pena?
L’inferno sarebbe stato peggiore di tutto questo? Non è tanto la
consapevolezza della dannazione ad angosciarmi, quanto
l’ineluttabilità della resa, il dover ammettere di avere perso la
partita. Mi sentivo simile a Dio e non sono null’altro se non
un’anima perduta. Potrei annuire con un cenno del capo, lasciarmi
fare quell’iniezione, addormentarmi e, forse, non svegliarmi più…
-
Ti risveglierai all’inferno – mi sussurra all’orecchio l’ombra
china sul mio capezzale.
Sussulto
violentemente, scatto a sedere, strappo la mascherina dal naso e
spalanco gli occhi. L’infermiera mi fissa sbigottita, poi stringe
le labbra in una smorfia.
-
Signor Alfredo, che sta facendo? Si calmi e si rimetta giù. Adesso
chiamo il medico di turno e le diamo qualcosa contro il dolore.
-
No... – sibilo. Socchiudo le labbra per ordinarle di guardarmi, ma
esito.
Il
mio tempo sta fluendo come la sabbia nella clessidra della vita; tra
poco dovrò capovolgerla o per me sarà la fine. Studio la donna: è
di bassa statura, pingue e goffa. L’improbabile rosso dei capelli,
e la ragnatela di rughe che il fondotinta di marca scadente non
riesce a nascondere, tradiscono la sua età. Sono inorridito, non
posso immaginare di albergare in quel corpo. Una femmina, e vecchia,
per giunta. È ancora vivida la memoria di tutte le esistenze
sprecate in simulacri femminili, quando non ho avuto nessun’altra
scelta e mi è toccato sopportare il sacrificio di vite assurde,
votate al martirio. Vite inutili. Come quella volta…
Non
mi era mai capitato di sentirmi così euforico; fino a pochi attimi
prima languivo, intrappolato dentro un corpo ripugnante, nascosto dal
saio monacale. L’avevo appena visto consumarsi sul rogo, quel corpo
tanto detestato, responsabile del rancore che aveva scatenato le mie
gesta immonde. Impazzivo per la gioia di essermene liberato.
Il
sangue delle giovani sacrificate all’Oscuro non bastava a
estinguere la mia sete, e celarmi nella pace del monastero diventava
sempre più difficile. Quando erano venuti a prendermi, avevo provato
una sorta di sollievo, non avevo neppure cercato di difendermi o
negare. Mi ero affidato al mio Signore. Lui non mi aveva deluso.
Mi
allontanai dalla piazza con l’odore della carne bruciata nelle
narici e, nelle orecchie, le urla di quella che era stata la mia
voce. Non provai rimorso, anzi: avrei ballato dalla felicità sulle
gambe salde che sorreggevano il torso muscoloso. Una tempesta
ormonale si abbatté sui miei sensi facendomi vacillare: adrenalina e
testosterone insieme, in un miscuglio sconvolgente, mai provato
prima. Il monaco deforme e impotente, che usava il suo ridicolo pene
solo per la minzione, aveva lasciato il posto a un giovanotto pieno
di vigore e libidine repressa.
Appoggiai
la mano sull’inguine e mi esaltai nel sentire la prepotenza
dell’erezione sotto la stoffa delle brache. Finalmente avrei potuto
possedere una femmina, non mi sarei dovuto accontentare di ucciderla
per profanare il suo corpo con le mani e con i denti. La voglia era
incontenibile: dovevo trovare al più presto una donna sulla quale
sfogarla.
Di
sera, poche anime si avventuravano tra i vicoli del piccolo borgo
medievale; incrociai due uomini che riconobbi come il fabbro e il suo
aiutante, poi la vidi. Il proprietario del corpo aveva già
adocchiato quella giovane e aveva cercato di avvicinarla senza
successo. Era una ragazza timorata di Dio, così si diceva in giro,
promessa in sposa fin dalla tenera età; usciva solo per andare in
chiesa, accompagnata dalla madre o dalla sorella. Chissà perché,
quella sera, vagava da sola nell’oscurità, rasentando i muri e
facendosi luce con una lampada a olio.
Non
persi tempo a cercare la risposta, né fui sfiorato dal sospetto che
non fosse un caso fortuito; lo considerai un colpo di fortuna e la
seguii. Lei avvertì la presenza alle sue calcagna, affrettò il
passo, ma non le servì a nulla. Con poche falcate la raggiunsi e la
ghermii alle spalle, premendole una mano contro la bocca per
impedirle di urlare. La spinsi in un vicolo cieco e mi gettai su di
lei; le strappai le vesti e la violentai con brutalità, indifferente
alle sue implorazioni. Sopraffatta dalla paura e dal dolore, la
ragazza svenne. Continuai ad abusare di quel corpo inerme con la foga
di un animale, finché mi accasciai al suo fianco, esausto.
Fu
una distrazione fatale: feci appena in tempo a vedere i suoi occhi
velati di lacrime e sentii la mano, armata di una pietra, calarmi con
violenza in mezzo alla fronte. Capii che stava sopraggiungendo la
fine: l’ombra scura mi alitava sul collo il suo respiro di morte.
-
Guardami – riuscii a dire alla ragazza, prima di stramazzare. Un
istante dopo, ero già intrappolato nel suo corpo. Il corpo di una
donna…
-
Signor Alfredo, riesce a sentirmi? Vuole che chiami il medico?
La
megera gracchia come un uccellaccio del malaugurio. Non sopporto
l’idea d’imprigionarmi nel corpo di una femmina vecchia e
petulante. Ci deve essere un’altra soluzione, un’altra possibile
scelta, cazzo! Potrei dirle di chiamare quel fottuto medico, o
chiunque altro voglia. Chiunque sarebbe preferibile a lei. Sì, posso
dirglielo, adesso glielo dico…
Apro
la bocca, inspiro per farmi uscire le parole, ma una lama mi trapassa
il diaframma. Lurida bestia! I viscidi tentacoli delle metastasi
hanno ormai invaso ogni cellula dello scheletro ricoperto di pelle
rinsecchita; il dolore aggredisce anche l’estrema delle
terminazioni nervose con la violenza di una frustata. Non ce la
faccio nemmeno a respirare, come potrei formulare una frase di senso
compiuto? Annuisco con la testa, ma la donna, dopo avermi sospinto di
nuovo in posizione supina, si china a controllare l’ago della flebo
e non se ne accorge. Stupida baldracca! Non posso prendere il suo
corpo. Non voglio.
Non
avrei voluto nemmeno quella volta; non ebbi possibilità di scelta…
Allargai
le dita e lasciai cadere la pietra. Guardai il giovane riverso a
terra con la testa fracassata: era morto. Il superbo involucro che
avevo preteso al prezzo della dannazione, adesso giaceva inanimato.
Con raccapriccio, mi resi conto di trovarmi proprio nel corpo di
quella ragazza, la stessa che avevo violentato.
Insieme
alla consapevolezza, arrivò il dolore. Ero sporco di fango, con la
pelle lacerata da graffi e morsi e tumefatta da lividi violacei. Mi
doleva ovunque, soprattutto nella zona del pube. Passai una mano
sotto la veste e tastai laggiù, nella piaga squarciata e umida che,
con disgusto, compresi essere il mio sesso; la ritrassi lorda di
sangue, il sangue dell’illibatezza.
Se
non fosse stato grottesco, l’avrei trovato perfino divertente:
nell’arco di poche ore, un monaco criminale si era trasformato in
un giovanotto infoiato, per ritrovarsi nei panni di una vergine
deflorata. Per il breve tempo che ero stato un giovane villano, mi
ero preoccupato di soddisfare un bisogno impellente; ora mi rendevo
conto che, insieme ai corpi, conservavo anche la memoria delle mie
vittime. La ridda dei loro ricordi s’intersecava con i miei: in un
istante, conobbi la vita di quella giovane.
Era
uscita con il buio per recarsi dallo speziale, sfinita, più che
convinta, dalle suppliche della sorella che da un po’ di tempo non
vedeva i suoi sanguinamenti. Le aveva parlato di come certe radici,
mischiate tra loro, avrebbero potuto restituirle la virtù.
–
Devi andarci tu, – la
supplicava – sei più piccola e darai meno nell’occhio.
Alla
fine la malcapitata cedette per non doverla più sentire piangere una
notte dopo l’altra, soffocando i singhiozzi nel guanciale. Quando
percepì i passi pesanti dietro di sé, affrettò i suoi e si
raccomandò a Dio, ma non fu ascoltata; la foga brutale
dell’assalitore vanificò il tentativo di fuga. Sentì un dolore
lancinante, come di un coltello che affondava nel ventre, e perse
conoscenza.
Non
avrebbe mai immaginato di poter ammazzare qualcuno, non riusciva
nemmeno a guardare, mentre sua madre tirava il collo a un pollo o
sventrava un coniglio. Eppure, una volta ripresi i sensi, provò una
furia cieca, tale da indurla ad afferrare una pietra e spaccare in
due la testa di quel mostro. Non ebbe il tempo di pentirsene: il mio
Signore, grazie al nostro patto, ghermì la sua anima. A me rimase un
corpo di fanciulla usurpato.
Tornai
in quella che adesso era la mia casa, mi ripulii alla meglio e mi
ficcai nel pagliericcio. Alla sciagurata che con i suoi piagnistei
aveva decretato la mia rovina tornò il mestruo; io, invece, non
vedevo nulla, un mese dopo l’altro. Il corpo di donna che detestavo
con tutte le forze si modificava, lievitava come una pagnotta; le
oscene escrescenze delle mammelle gonfiavano.
Capii
con raccapriccio di essere gravido. Lo capirono anche coloro che
pensavano di essere i miei genitori. Per nascondere la vergogna, fui
rinchiuso in un convento, dove partorii fra atroci sofferenze
l’essere che da nove mesi cresceva nelle mie viscere. L’avevo
odiato fin dal primo istante, lo detestavo con tutto me stesso. La
notte stessa trascinai il corpo spossato fino alla culla, afferrai il
neonato e gli conficcai i denti nel collo. Il mio Signore si
compiacque di quel sangue innocente; io fui ritenuto pazzo e gettato
in una cella, dove rimasi a languire per un’intera, interminabile
vita, maledicendo ogni istante la mia natura di donna.
Desiderai
in numerose occasioni di farla finita e suicidarmi, ma ogni volta
l’ombra nera incombeva su di me a ricordarmi il patto: se mi fossi
ucciso, gli avrei consegnato l’anima. In punto di morte,
m’impadronii di uno dei miei carcerieri e giurai a me stesso che
non sarei ricaduto in quel tragico errore; ma, come mi resi conto
nelle vite successive, non ero padrone del destino: la scelta era
sempre obbligata da un disegno che trascendeva la mia volontà.
Mi
volto verso il demone e cerco di guardarlo negli occhi; scorgo
soltanto un bagliore rossastro nell’ombra nera del volto.
Rabbrividisco. So che legge i miei pensieri e mi parla nella mente.
-
Non lei, – supplico – non questo corpo osceno. Voglio scegliere,
stavolta.
-
Oh, puoi farlo. Alzati dal letto ed esci da questa stanza – mi
schernisce. – Fuori dalla porta, ci sono decine di persone: potrai
impadronirti di quella che ti sarà più gradita.
Maledetto
demonio: si sta prendendo gioco di me. Sa che sono un vecchio in fin
di vita e non troverei mai la forza di alzarmi. Non posso andare a
cercare qualcun altro, non posso scegliere.
Non
ho mai potuto scegliere, tranne la prima volta. È stata quella
l’esca con la quale il maligno mi ha avviluppato nella sua rete.
Non sono mai stato padrone del destino, ha sempre e solo deciso lui,
mi ha manovrato come una marionetta e si è servito di me per
perseguire i suoi fini. Ho commesso le azioni più atroci in ognuna
delle mie vite, ma a dirigere la regia c’era sempre lui: io non ero
che una comparsa. Mi ha ingannato con l’illusione dell’immortalità:
non si è limitato a gravare di un’ipoteca la mia anima, ma si è
preso senza alcuno sforzo anche quelle delle vittime da lui già
designate. Ciascuna di esse si era macchiata di colpe che non aveva
avuto il tempo di riparare. Adesso è tutto chiaro: ho voltato la
carta e svelato l’inganno.
-
Basta, – mi ribello – non vivrò un’altra vita miserabile per
rendermi ancora strumento delle tue nefandezze. Voglio recedere dal
contratto, voglio morire, finalmente. Prendi pure la mia anima:
nessun inferno sarà peggiore di quest’abominevole farsa.
-
Ne sei proprio sicuro? – replica. – Allora guarda… - solleva un
braccio, indica un punto della stanza.
Giro
lo sguardo e, in un attimo, mi passano davanti agli occhi le mie
vite, i delitti commessi, le anime che ho derubato dei corpi e le
altre che ho violato, ingannato, ucciso senza misericordia. Gridano
tutte insieme contro di me come ossessi; le loro urla mi esplodono
nel cervello. Porto le mani alle tempie, serro le palpebre per non
vederle più; un bagliore accecante mi folgora, vedo me stesso in
mezzo alle fiamme, moltiplicato nei corpi che ho carpito, e tutti
urlano e si dimenano, torturati da un fuoco che arde senza
consumarli.
Quello
è l’inferno dove brucerò per l’eternità.
-
Oh, Dio… - mormoro, annichilito dal terrore.
-
È troppo tardi per implorare quel nome – sghignazza l’ombra. –
Avresti dovuto farlo la prima volta, e ti saresti salvato. Ora
appartieni a me: conosci i termini del contratto. Devi solo decidere
se vuoi consegnarmi la tua anima adesso o se preferisci vivere
ancora. E devi deciderlo in fretta: non hai più tempo.
Non
ho più tempo, lo so: sento le forze che mi abbandonano, il respiro
che si affievolisce. Devo decidere subito, non c’è altra scelta.
Non c’è mai stata. Adesso lo so. Piango. Una preghiera m’increspa
le labbra, una preghiera che nessuno ascolterà.
-
Signor Alfredo, ma lei sta delirando – l’infermiera è china su
di me, mi fissa preoccupata. – Ha invocato Dio. Desidera
confessarsi? Vuole che mandi a chiamare un frate della cappella?
Se
ne avessi la forza, l’azzannerei alla gola per arginare quel fiume
di parole. Vecchia troia, inutile come tutte le donne. E io, adesso,
dovrei… no, cazzo! Non lei, non un’altra stupida, ripugnante
femmina. Scoppio in una risata sguaiata che acuisce gli spasimi di
dolore. Il frate, che idiozia: nessun frate potrebbe aiutarmi. Non ho
scampo. E non ho nessun’altra scelta.
Le
artiglio una mano, la fisso negli occhi: - Guardami! – intimo, e il
mio inferno sulla terra ricomincia a bruciare.
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