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martedì 17 marzo 2015

Un giorno d'inverno che è quasi primavera




Dal parapetto del ponte,
scruto l’incresparsi dell’acqua
fino all’uscita del porto.

Una bizzosa tramontana morde la pelle,
arruffa i capelli e disperde i pensieri.

Lo sciabordio sommesso delle onde
ricorda il rumore del mare
rinchiuso dentro una conchiglia.

Cigola il sartiame degli ormeggi;
striduli gabbiani
fendono l’aria in battere e planare.

Respiro il profumo del salmastro,
odore di pesce fritto dai barchini,
sentore di pioggia imminente.

Effluvi di una primavera
che gioca a nascondersi e svelarsi,
mentre il vento sospinge lontano le nuvole
e libera squarci d’azzurro
nel livore del cielo.

domenica 15 marzo 2015

Chi ama non abbandona


Immagine web modificata,

«Guardalo: è così da quando l’hanno portato qua, povera creatura…»
Gli occhi di Chiara luccicano di lacrime trattenute a stento; con un movimento della testa, accenna in direzione delle gabbie. Seguo il suo sguardo distrattamente: ho i miei pensieri, oggi, e non sono affatto rosei.  
«Ho dovuto separarlo dagli altri» continua la giovane volontaria. «Non perché sia aggressivo, anzi: se ne sta accucciato in un angolo, non mangia, non beve, non fa nulla per ambientarsi. L’isolamento è l’unica maniera di proteggerlo, ma se va avanti così…»
«Che cosa gli è successo?» chiedo, sbirciando la scura massa di pelo buttata come un sacco in fondo alla gabbia.
Il cane è un meticcio di taglia media; sta raggomitolato, con la coda e la testa nascoste tra le zampe. Non si muove, sembra quasi che non respiri.
Un moto di compassione mi urta il petto. Sono anni che presto la mia opera di volontario al canile, e non riesco a non lasciarmi coinvolgere. Vengo qua per pulire le gabbie e i recinti ed eseguire piccole riparazioni. Dei cani, nutrirli e curarli, si occupano altri, più qualificati di me. Come Chiara, che lavora otto ore al giorno in una clinica veterinaria e ne trascorre quasi altrettante al canile, a titolo gratuito. Ho conosciuto delle persone meravigliose, qui, anche se, negli ultimi tempi, sono stato troppo preso dai miei problemi per curare le relazioni sociali.
Osservo la ragazza, forse per la prima volta da quando la conosco. Ha lo sguardo che brilla e le guance arrossate. La voce trema di sdegno:
«La solita storia: qualche “brava persona” l’ha lasciato qui, legato al cancello con una corda. Nessun micro chip o altro segno d’identificazione. Uno dei tanti casi di abbandono. Non sembra aver subito maltrattamenti, anche se è denutrito e disidratato, ma è uno degli animali più traumatizzati che abbia mai visto. Se non riesco a farlo mangiare da solo, sarò costretta a portarlo in clinica e alimentarlo per flebo…» abbassa la testa, sospira.
Intuisco le sue preoccupazioni. «Ti darò una mano per le spese» mi offro di slancio, senza riflettere.
Ho un lavoro precario, le rate del mutuo che mi strangolano e una ex compagna che, proprio in questo momento, sta facendo le valigie. Oggi sono scappato per non vederla mentre le preparava, e soprattutto per non trovarmi, ancora una volta, nella condizione del “patetico fesso” che supplica l’amata di non abbandonarlo. Credo di aver fatto tutto quello che era nelle mie possibilità, insistere mi farebbe perdere anche la briciola di dignità che mi è rimasta. E non servirebbe a nulla. È tutto il giorno che cerco di non pensarci e di stancarmi con lavori pesanti, ma tra poco dovrò tornare a casa: un appartamento vuoto dove non ho nessuna voglia di rientrare.
Guardo di nuovo il cane: non si è mosso di un millimetro, sembra davvero morto. Immagino come debba sentirsi, privato dei suoi affetti, lasciato da solo, al buio e al freddo. Tradito e abbandonato dalle persone che amava e che credeva lo amassero. Forse non ha più voglia di vivere. Io ho il cuore gonfio di sofferenza e la mente ingombra di pensieri angosciosi, ma non ho mai provato il desiderio di lasciarmi morire… invece, lui…
«È una povera anima indifesa…» sussurro quasi a me stesso. «Ha paura, non riesce a capire cosa sia successo, perché l’abbiano lasciato da solo in un posto che non conosce. Magari sta aspettando che il suo padrone torni a prenderlo, ma non tornerà, quel bastardo!»
Ho alzato la voce senza rendermene conto. Chiara mi posa una mano sul braccio: «Dai, adesso non pensarci e torniamo al lavoro, c’è ancora molto da fare. Più tardi proverò di nuovo a fargli mangiare qualcosa.»
Si allontana in direzione del recinto, dove una dozzina di cuccioli scorrazzano vivaci. Gli uggiolii di contentezza, rivolti all’umana che porta la “pappa”, mi scaldano il cuore. Guardo l’ora: comincia a farsi tardi; non ho nessuna fretta di andarmene, ma tra poco calerà il sole e, se non mi sbrigo, non riuscirò a completare la tabella di marcia che mi sono imposto. Devo ancora togliere le foglie secche dal vialetto, ripulire lo sgambatoio dagli escrementi e riparare uno strappo nella rete di recinzione.
Ben più difficile sarà ricucire lo squarcio della mia anima. Per quanto mi sforzi, non riesco a individuare il momento in cui è cominciata la fine; forse, preso dai problemi della quotidianità, non mi sono reso conto che stavo perdendo la cosa più importante. Delle mie innumerevoli colpe, che lei mi ha vomitato addosso in un elenco impietoso, la principale è stata la presunzione di credere che andasse tutto bene, che io le bastassi come lei bastava a me. Sono stato superficiale, cieco, ottuso e anche… com’è che ha detto? Ah, sì, “uno sporco egoista”.
La cosa che mi fa più male è l’aver dovuto constatare di essere una schifezza d’individuo, o almeno che lei mi veda come tale. Se mi avesse confessato una sbandata sentimentale, avrei potuto cercare di lottare, ma il disprezzo che ho letto nei suoi occhi mi ha annientato. Mi sono afflosciato su una sedia, ammutolito da una lama di dolore che mi tagliava il respiro, ascoltando i suoi passi concitati in quella che era stata la nostra stanza da letto.
Quando ho sentito aprire i cassetti e le ante dell’armadio, ho capito. Con uno sforzo mi sono tirato su e sono uscito. Non avrei sopportato di vederla andare via. Sono venuto al canile, l’unico posto dove potessi rifugiarmi, dove quello che faccio è apprezzato e ricompensato da qualche sorriso e dalla muta riconoscenza di tante piccole creature pelose. Loro non fanno domande, non recriminano, chiedono solo un po’ d’amore e lo restituiscono moltiplicato per mille.
Guardo di nuovo lo sfortunato cane, immobile in posizione fetale. Non riesco a staccarmi dalla gabbia. Mi avvicino e modulo con le labbra un fischio leggero. Nessun movimento da parte dell’animale, ma credo d’intravvedere un impercettibile fremito che gli percorre la schiena. Afferro le sbarre con entrambe le mani e provo a chiamarlo: «Ehi, piccolo, vieni qua…».
Mi risponde un guaito lamentoso. È flebile, appena un sussurro, ma sono sicuro di averlo sentito. Esulto di gioia. «Bravo, cucciolo, vieni…» insisto.
Senza sollevare il muso, il cane comincia a strisciare sul ventre, aiutandosi con le zampe. Attendo col fiato sospeso che sia abbastanza vicino, poi allungo una mano all’interno della gabbia e gliela poso sulla testa in una carezza delicata.
«Bravo, sei proprio un bravo cagnolino» sussurro.
Con l’altra mano tiro fuori dalla tasca un biscotto, uno di quelli che offro di nascosto ai miei piccoli amici, sfidando i rimbrotti di Chiara e degli altri volontari che mi accusano di viziarli troppo. Tenendolo nel palmo aperto, glielo avvicino alla bocca. Lo annusa col naso umido e fremente, poi lo inghiotte con un sospiro e continua a leccarmi la mano.
Non resisto e apro la gabbia. Il cane scatta sulle zampe come una molla e mi salta in braccio, facendomi vacillare per la sorpresa. Stringo forte tra le braccia il corpicino peloso, mentre lui mi lambisce la faccia con la lingua. I nostri occhi s’incontrano: i suoi sono grandi, color nocciola, pieni d’implorante speranza.
Chiara ci trova così, abbracciati, io che lo blandisco con parole rassicuranti e lui che guaisce e mi lecca dappertutto.
«Non ci posso credere… come hai fatto?» chiede.
«Non lo so, ma io questo botolo peloso me lo porto a casa» affermo, deciso, «non voglio lasciarlo un’altra notte rinchiuso in questa prigione.»
«Se mi aspetti, vengo con voi. Non sai niente di cani: bisogna fargli un bagno e dargli da mangiare le cose giuste. E domani me lo porti all’ambulatorio per gli accertamenti clinici necessari. Se vuoi adottare un cane, devi essere consapevole…»
«Ehi, signorina, calmati,» la freno, «farò tutto quello che sarà necessario, stai tranquilla. Sono felice se vieni a casa con noi, sei una cara amica, ma per stasera… che ne diresti di hamburger e patatine per tutti e tre? Temo di non avere nient’altro di commestibile.»
Chiara scoppia a ridere, e solo adesso mi accorgo di quanto sia bella.    

venerdì 13 marzo 2015

Ritratto di bambina con palla





   Fra i nembi minacciosi, ammicca una turpe luna piena. Rossa, quasi volesse piangere lacrime di sangue sulla Terra. Notte di bufera, notte dinfausti presagi, notte che funesterà dincubi il sonno dei viventi e disperderà nel vento le preci dei morti.
Mi chiamano, supplicano dessere ascoltati, consolati, perfino vendicati. Soltanto io posso udirne le voci confuse nel cupo brontolio dei tuoni. Io, una miserabile vecchia dimenticata dal mondo, possiedo la facoltà di parlare con le anime dei trapassati.
Non so se sia un dono o se rappresenti il mio purgatorio, lunica possibilità di espiare i peccati commessi, ma non posso sottrarmi e nemmeno lo vorrei. In una notte che anche il più ubriaco dei clochard cercherebbe riparo in qualche anfratto, sollevo le membra dal giaciglio, mintabarro nel mantello color tenebra ed esco. Non devo fare molta strada, dalla casupola assegnatami come guardiana del cimitero al padiglione dov’è situata la tomba fresca dinumazione, ma le violente raffiche di vento ostacolano il mio incedere e la pioggia gelida penetra fin dentro le ossa.
Loro sono intorno a me; le grida disperate mi turbinano in testa come insetti impazziti rinchiusi in una bottiglia: una ridda di pianti, invocazioni, preghiere, in lingue che dovrebbero essermi sconosciute e che invece comprendo senza difficoltà. Non ho paura: sono i vivi a spaventarmi, non queste povere anime che anelano la pace. Alcuni provano a trattenermi, a ghermire le vesti e i capelli, e sfogano la frustrazione con lugubri lamenti che mimpietosiscono fino alle lacrime. Tremo e sgrano tra le dita rattrappite le sfere del rosario consunto; prego per loro, non posso fare altro, stanotte, non posso fermarmi né indugiare. Lei ha bisogno di me. È piccola, è sola, è terrorizzata. Sento i singhiozzi convulsi, il suo invocare la mamma, e il mio cuore sembra spezzarsi dalla pena. La stessa pena che mi ha straziato durante il funerale nellassistere al dolore di una donna privata dellaffetto più caro, il frutto delle sue viscere. Hanno dovuto strapparla dalla bara e portarla via di peso, mentre si dimenava e scalciava come una furia, gridando fino a perdere il fiato.
Sono arrivata, vedo la piccola sepoltura sommersa di fiori strapazzati dal vento, la croce di marmo, langelo del dolore illuminato dai bagliori rossastri della luna. Lei non c’è ma so che non è lontana: la sento, sento che ha freddo e paura. Mi avvicino alla tomba per distinguere la fisionomia nellimmagine funeraria, per leggere il nome e letà. È più piccola di quanto credessi: appena cinque anni. Unaureola di ricci castani incornicia il visetto paffuto dagli occhi scuri e sorridenti. "Dormi in pace cullata dagli angeli", recita lepitaffio. Ricordo i discorsi sussurrati dagli amici e parenti presenti al funerale, che ho carpito mentre rassettavo i vialetti del cimitero:
- Povera creatura un fiore ancora in boccio strappato alla vita. Investita da unauto proprio davanti alla sua casa, sotto gli occhi della madre. Era scesa dal marciapiede per inseguire la palla sfuggitale di mano ed è stata travolta. È morta sul colpo, non se n’è nemmeno resa conto, per fortuna
Per loro era una consolazione che la piccola non avesse sofferto, ma io sono rabbrividita, nelludire quelle parole. La bambina non si è accorta di nulla, non ha capito che cosa le stesse accadendo, non sa di essere morta. Per questo è ancora qui, attaccata alla vita, a invocare la mamma e cercare la sua palla. Potrebbe rimanere per sempre prigioniera tra le lapidi di questo cimitero, come tutte le anime sciagurate che non riescono a staccarsi dai ricordi terreni, dai sentimenti che hanno provato in vita, le persone e le cose che hanno lasciato. Lei, però, è così piccola e innocente devo fare qualcosa per aiutarla, non posso tollerare di sentire il suo pianto notte dopo notte per il tempo che mi rimarrà da vivere.
Mi siedo sulla lapide fra le corone disfatte e aspetto, incurante del vento e della pioggia. Le nubi si sono addensate in cumuli scuri che nascondono la luna; il buio è squarciato soltanto dal balenio delle folgori. Provo a chiamare la bambina per nome, piano, scandendo le sillabe; al terzo tentativo, mi risponde un singhiozzo sommesso. Guardo nella direzione dalla quale mi sembra provenga e intravedo unombra opalescente, semi nascosta da una scultura marmorea. La chiamo ancora, le dico che va tutto bene, non deve avere paura, sono unamica della sua mamma e ho portato una cosa per lei. Mentre le parlo, tiro fuori da sotto il mantello una palla colorata e la faccio rotolare sul vialetto. La bambina emette un grido di gioia e corre incontro alla palla, leggera come una farfalla nel suo abitino candido; poi si china e allunga le braccia per prenderla, ma le piccole mani aperte stringono soltanto laria. Solleva gli occhi smarriti a fissare il punto dal quale le arriva la mia voce; non sono sicura che mi veda, ma riesce a sentirmi.
Adesso devi ricordare mormoro, suadente. La mamma che grida di fermarti e la macchina che ti arriva addosso
È crudele quello che sto facendo, preferirei morire piuttosto, ma è lunica maniera che ho per aiutarla. Lei rimane immobile per qualche istante con gli occhi sbarrati, poi caccia un urlo e scoppia in un pianto disperato, accasciandosi a terra. Lascio che si sfoghi, la blandisco con frasi rassicuranti finché i singhiozzi sfumano in un ansimare sommesso.
- Va tutto bene, tesoro, tra poco sarà tutto finito sussurro. Adesso smetti di piangere, alzati e guardati intorno. Dovresti vedere una luce
La piccola ubbidisce, si tira su e strofina le palpebre con gli indici delle manine strette a pugno, poi spalanca gli occhi e fissa un punto lontano, in mezzo ai cipressi. La bocca si allarga in un sorriso estasiato.
- Nonnina! esclama, felice.
- Vai, piccola, corri dalla tua nonna - la incito.
Prima di scomparire nella luce, si volta un attimo a guardarmi, e sono sicura che mi veda, perché posa un bacio sulle dita e lo soffia verso di me.


giovedì 12 marzo 2015

Il tempo




Il tempo non mi appartiene,
e nemmeno io appartengo a me stessa.
È tutta un’illusione:
vivere, fare progetti, amare…
solo un’illusione.

Non so chi io sia,
non so da dove provenga
la scintilla che mi ha generato,
e chi abbia deciso
che così dovesse essere,
chi abbia scelto me, piuttosto che un altro,
per concedermi questa opportunità.

E non so se sia un premio o un castigo,
il paradiso o il purgatorio,
oppure un inferno fine a se stesso.

Non so nulla, non mi è dato sapere;
ho smesso di farmi domande,
se mai me le sono fatte.
Le risposte, se ci sono,
non potrei comprenderle,
e forse nemmeno lo desidero.

Non mi servirebbe a nulla capire,
non potei cambiare di un soffio
ciò che qualcun altro ha stabilito,
e sarebbe perfino più frustrante.
Non potrei tollerarlo.

Me ne sto qui,
accucciata in un anfratto dell’universo,
e aspetto
quello che tutti aspettano:
l’unica cosa certa della vita.

Il tempo è un inganno e non lo possiedo,
è lui a possedermi,
a decidere per me.
Scorre via inesorabile,
tinge di bianco i miei capelli,
mi sfugge come sabbia tra le dita.
Non riesco a trattenerlo,
non riesco a  fermarlo.
Cerco di viverlo come meglio posso,
stringo i denti e seguo la sua scia.



lunedì 9 marzo 2015

Adesso sei qui


Immagine web modificata 

Eccolo.

Il passo sfiora gli scalini

e il respiro, con gli anni,

si è fatto più affannato.

Non voglio domandarmi

se trascini la sua voglia come fa con i piedi,

e se la passione scemi insieme al  fiato.

Non importa.

È venuto anche stanotte,

e solo questo conta.

Spengo la luce,

preferisco aspettarlo al buio.

Il buio mi è amico,

nasconde, pietoso,

i danni del tempo;

cela le rughe

e l’amarezza in fondo agli occhi.

Il suo sorriso stanco

lo immagino nella penombra,

e tutte le frasi non dette

rimbombano nel silenzio.

Non servono parole,

bastano le sue mani, morbide,

ad accarezzare la pelle.

E il suo odore

che è lo stesso di sempre,

e le labbra frettolose che cercano le mie

per indugiarvi appena un attimo.

E il battito del cuore contro il petto

ad acquietare le mie ansie.

Non gli chiederò nulla,

nemmeno se tornerà domani.

Non importa.

È qui,

adesso,

e il tempo si dilata nell’eternità.

E sarà ancora una volta amore.   




sabato 7 marzo 2015

Per te, Donna.



Immagine web modificata.


Per te che sei l’altra metà del cielo,
un cielo troppo spesso burrascoso.
Per te che sei la terra che nutre e l’acqua che disseta.
Per te che dai la vita, e la tua vita è una tribolazione.
Per te che perdoni mille volte ma non dimentichi,
e spargi il sale dei ricordi sulle ferite dell’anima.
Per te che cadi e ti rialzi, e tendi a tutti una mano.
Per te, angelo dalle ali strapazzate, dea senza altari,
vecchia bambina che sorride tra le lacrime,
e non smetti di credere in quell’amore
che è la tua salvezza e la tua perdizione.
Per te che reggi il mondo sulle spalle fragili,
e sulle miserie umane ti elevi con ali di farfalla.
Per te, schiava senza affrancazione
ma più libera di un gabbiano in volo.
Per te che chiudi i sogni in uno scrigno
e li custodisci  per tempi migliori.
Per te, cantata dai poeti, effigiata dai pittori,
umiliata, tradita, stuprata, rinnegata
da chi ha usa la forza per sottometterti,
e non sa che la vera forza è nella tua sopportazione.
Per te che adori le mimose,
ma non hai bisogno della lusinga di un fiore
né di una ricorrenza da festeggiare.
Per te, madre, figlia, sorella, compagna, amica,
semplicemente, immensamente  Donna.

giovedì 5 marzo 2015

Che importa...




Non  so se quella che chiamano vita
sia soltanto un sogno,
o se i sogni siano la vita vera.

Forse sono vissuta in altre ere,
in qualche universo parallelo,
e la coscienza di me
è come la luce di stelle remote
ormai spente da millenni;
o forse devo ancora nascere,
sono un progetto d’ingegneria genetica,
un ologramma tridimensionale
che vaga in un cyber spazio.

Eppure il sangue che mi scorre nelle vene
è caldo, è pulsante,
e la carne che ricopre le ossa
soffre e gioisce,
freme sotto una carezza, si riscalda al sole.

È tutta un’illusione?
Che importa…
quando chiudo gli occhi
e inspiro a pieni polmoni,
mille fuochi d’artificio mi esplodono in testa,
e sento di essere viva.