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mercoledì 9 dicembre 2015

Viola







     Giulia si fa coraggio e bussa alla porta. – Avanti – la sollecita una voce maschile.
 Respira per allentare l'ansia e abbassa la maniglia; in mano stringe le cartelle con i disegni.
- Ah, è lei, architetto... Entri pure. Ha terminato il lavoro che le ho affidato?
- Sì, dottore, - gli porge una delle cartelle, - eccolo.
L'uomo gliela sfila con delicatezza dalle dita, la posa sul piano della scrivania e la apre. Scorre i disegni e li osserva minuziosamente. Giulia trattiene il fiato finché lui solleva gli occhi.
- Questi elaborati grafici sono perfetti: era proprio ciò che mi aspettavo da lei. Brava!
Il sorriso seducente dell’architetto Landi la fa arrossire; le succede fin dalla prima volta che l'ha incontrato. Titolare dello studio più prestigioso della provincia, dove era quasi impossibile perfino entrare come praticanti, l'aveva ricevuta senza appuntamento. Lei poteva vantare una laurea conseguita con il massimo dei voti, un master in architettura sostenibile e un esame di Stato superato brillantemente, ma sembrava che nessuno avesse bisogno di una giovane donna architetto, con il sogno di realizzare progetti grandiosi e nessuna esperienza.
- In cosa posso esserle utile, signorina? - le aveva chiesto con modi gentili.
Bel tipo, sui quarant'anni, con profondi occhi scuri che la studiavano. Il cuore aveva perso un paio di battiti, ma si era ripresa subito; con la sfacciataggine dei timidi, aveva deciso di saltare ogni preambolo.
- Mi chiamo Giulia Mariani, ho ventisette anni, sono architetto progettista, abilitata e iscritta all'albo. Mi piacerebbe lavorare nel suo studio. Non come praticante perché non posso permettermelo: ho una bambina piccola, la sto crescendo da sola e ho bisogno di un impiego retribuito.
Sul volto dell'uomo il sorriso aveva ceduto il posto allo stupore: sicuramente l'avrebbe cacciata per la sua impudenza. Non gli aveva lasciato il tempo di replicare: -Vorrei precisare che non sono disoccupata. Lavoro in uno studio di grafica pubblicitaria, ma non è questo il mio sogno, non è quello per cui ho studiato tanti anni...
- E qual è il suo sogno? - l'aveva interrotta con tono garbato.
Gli occhi di Giulia si erano illuminati e lo sguardo era corso al tavolo da disegno che troneggiava in un angolo dell'ufficio.
- Vorrei progettare opere importanti: complessi residenziali, centri commerciali, insediamenti a misura d'uomo ed eco sostenibili, dove la gente potesse vivere e lavorare felice.
- Beh, è il sogno di ogni architetto, ma converrà che non tutti possono diventare dei Piano o dei Calatrava. Dunque, lei lavora nel settore della grafica... sa usare il cad.?
- Ovviamente, - aveva risposto, senza smettere di fissarlo, - ma sono esperta di calcolo strutturale e a casa ho un tavolo da progettazione, anche se non professionale come il suo. Il computer è uno strumento di lavoro indispensabile, ma le mie idee devo prima realizzarle a matita. La mano che traduce in linee quella che è solo un'intuizione, e che prende forma in uno schizzo, prima ancora di diventare un progetto.
- Bene, architetto, - per la prima volta l'aveva chiamata con il titolo accademico, - è assunta. Naturalmente in prova e dopo che avrà regolato la posizione con il suo attuale datore di lavoro. Però non si aspetti subito incarichi di progettazione: dovrà fare la gavetta e per il momento sarà di supporto tecnico al mio staff.
Era rimasta a bocca aperta, incredula, talmente certa di un rifiuto da sentirsi spiazzata.
- Non vuole nemmeno guardare il mio curriculum? - aveva balbettato con un filo di voce.
- Oh, non serve: sono sicuro che si sia laureata con il massimo dei voti.
Lei aveva annuito, un po' a disagio.
- Ma non è per questo che ho deciso di assumerla: mi hanno colpito la sua fermezza e l’entusiasmo con cui parla della professione. Bene, adesso devo salutarla; per i dettagli si rivolga alla mia segretaria.
Si era congedata, troppo turbata perfino per ringraziarlo; era già alla porta, quando l'uomo l'aveva richiamata:
- Senta, architetto, quanto ha preso nell'esame di calcolo strutturale?
- Il massimo della valutazione.
Era scoppiato a ridere: - Ci avrei scommesso!

A distanza di un anno, Giulia si sente di nuovo tesa come quel giorno; stringe nella mano la seconda cartella, quella con i suoi disegni, gli schizzi che le sono costati molte ore di lavoro, la sera a casa, dopo aver fatto addormentare la bimba. Li sente come una parte di sé, un frammento della sua anima. Ha lottato a lungo con se stessa, indecisa se mostrarglieli o meno, ma a chi potrebbe proporli, se non a lui? Lui che, in pochi mesi, si è conquistato un posto nel suo cuore senza nemmeno saperlo. Lui che la tratta con cortesia, ma continua a chiamarla “architetto” e ad assegnarle la parte tecnica dell'elaborazione di progetti che appartengono ad altri. “Architetto, lei è una collaboratrice preziosa” è solito ripeterle, “ormai è indispensabile, per questo studio”. Non oserebbe mai confessargli che preferirebbe la chiamasse Giulia e le rivelasse che è indispensabile per lui. È solo un sogno, come quello di vedersi affidare un progetto tutto suo.

Francesco Landi la osserva: sembra sulle spine e stringe qualcosa tra le mani. Ottimo elemento, Giulia Mariani. Ha fatto bene ad assumerla, sebbene non avesse alcuna esperienza e, a dire il vero, senza nemmeno aver bisogno di un altro collaboratore. A volte conviene, assecondare l'istinto. Si era accorto subito di quanto fosse carina nella sua eleganza semplice e austera, ma adesso che la guarda meglio si rende conto che è davvero bella, con quegli occhi blu che virano al viola e il portamento fiero. Sa che ha una bimba piccola, ma dopo quell'unico accenno non gliene ha più parlato, né la sua condizione di donna sola con una figlia ha mai interferito con l'ottimo rendimento lavorativo.
- Giulia, c'è qualcos'altro che vuole dirmi?
 Lei è sbiancata: per la prima volta l'ha chiamata per nome e la sta guardando come se fosse una persona, e non un mobile dell'ufficio. Si fa coraggio:
- Sì, dottore. Avrei dei disegni... roba mia. Riguardano il progetto per l'appalto del nuovo centro commerciale. Non li ho elaborati durante l’orario di lavoro - si affretta a precisare, - ma la sera, a casa. Mi sentirei davvero onorata se volesse darci un'occhiata per dirmi cosa ne pensa.
Adesso tace a occhi bassi, serrando la cartella con entrambe le mani.
- Il nuovo centro commerciale? Ma...
Rialza gli occhi e lo fissa risoluta: - Lo so, non mi ha chiesto di occuparmene, ma avevo un'idea e ho voluto provare a darle corpo. Non mi aspetto nulla, dottore, le chiedo solo di guardare i disegni. La prego, mi conceda un'opportunità.
Francesco sorride indulgente: - Giulia, mi rendo conto che finora l'ho sacrificata in mansioni che forse le stavano strette, ma creda, l'ho fatto per il suo bene. L'esperienza è indispensabile per un architetto che vuole arrivare a mettere la firma sui propri progetti. So quanto lei sia ambiziosa e conosco il fuoco che la divora: anch'io ero così, alla sua età. D'accordo, mi lasci i disegni: li studierò con attenzione.
Gli occhi della donna brillano di gioia. Come ha fatto a frequentarla per mesi e non accorgersi di quanto sia affascinante? Bella, volitiva, decisa. Chissà se la bambina le assomiglia...
- Giulia, senta: cosa ne dice sua figlia di avere una mamma così tenace?
 Dal volto attraente scompare ogni traccia di sorriso: - Nulla, dottore... la mia bambina non parla ancora.
- Dovrebbe avere quasi tre anni, se non ricordo male. Com'è possibile che non parli? Non sarà... - s’interrompe, imbarazzato.
- No, non è sorda. Non ha anomalie fisiche né ritardi psichici. E' una bambina normale, anzi, a detta degli specialisti ha un'intelligenza superiore alla media. Però non vuol saperne di parlare. Mi tormenta il dubbio che la colpa sia mia, per averla fatta crescere senza un padre. Mi chiedo se questo possa averle causato qualche trauma. Non sembra una bambina sofferente: è serena, affettuosa, piena di gioia di vivere. Trascorro con lei ogni istante del tempo che non dedico al lavoro e cerco di farla sentire amata e desiderata. Ma non serve a nulla: in due anni e mezzo non ha mai detto una sola parola.
Francesco è sconcertato: - Non sapevo, Giulia, non potevo immaginare. Non me ne aveva mai parlato.
Lei si è ricomposta: - Non poteva saperlo, non ne parlo mai con nessuno. Adesso dovrei andare: la baby sitter sta per terminare il suo orario. Posso lasciare i disegni?
- Certo... - mormora, scosso. - Arrivederci, cara. Dia un bacio da parte mia alla bambina.
- Viola. Si chiama Viola. Buona serata, dottore, a domani. E grazie.
Giulia richiude la porta e vi si appoggia contro, con le gambe che tremano per l'emozione e il respiro affannato. Ha condiviso il suo segreto con quell'uomo dolce e gentile, e adesso le sembra di essere leggera come una farfalla. Non importa se lui non saprà mai quanto lo ama.
Mentre entra nel suo appartamento, sta ancora fantasticando sullo sguardo di Francesco e sulla sua voce che sussurra: “Giulia, cara... ”. Un fagottino biondo le vola tra le braccia; solleva la bambina e la stringe forte. La piccola le cinge il collo con le braccia e le stampa sonori baci sulle guance, con gridolini di gioia. Quel tenero cucciolo dai boccoli biondi ramati e gli occhioni viola è tutta la sua vita. Il colore dei capelli è l'unica cosa che ha preso dal padre, un simpatico giovanotto conosciuto durante la vacanza in Irlanda che si era concessa come regalo di laurea. Pochi giorni insieme, la follia di una notte, poi lui era sparito lasciandole il dono di una vita che le cresceva dentro. Era stata immensamente felice fin dal primo momento che aveva scoperto di essere incinta.
- Che occhi stupendi! - aveva esclamato l'infermiera della nursery quando gliel'aveva messa tra le braccia. - Sembrano quasi turchini. Peccato che probabilmente cambieranno, come succede spesso ai neonati. - Poi aveva guardato la puerpera: - Gli stessi occhi della mamma, avete entrambe gli occhi viola!
E Viola era stato il nome che Giulia aveva messo a sua figlia. Come un piccolo fiore profumato, Viola era una bambina delicata e gentile, affettuosa e vivace. Però non parlava.
- Non mi preoccuperei più di tanto, - aveva minimizzato il logopedista, - la bambina non ha nulla di anormale. E' sveglia e intelligente. Parlerà quando ne avrà voglia.
Giulia aveva fissato il medico come se stesse dicendo un'eresia, strappandogli un sorriso.
- Diamole ancora un po' di tempo, signora. Se fra un paio di mesi la situazione non si sarà sbloccata, faremo degli accertamenti più approfonditi. Nel frattempo, si goda la sua bella bambina e le faccia sentire tutto il suo affetto.
 Niente di più facile: come sarebbe stato possibile non adorare il suo angioletto biondo?
- Ehi, voi due, guardate che ci sono anch'io.
Giulia posa a terra la bimba e sorride a Martina, la giovane baby sitter. E' figlia di una vicina, studentessa al quarto anno di architettura, e le dà una mano in cambio di un compenso modesto e di un ben più consistente aiuto con gli esami.
- Scusa Martina, hai ragione, ma dopo il lavoro non vedo l'ora di mangiarmi di baci la mia piccola. E' stata brava?
- Certo, come sempre: è una bambina tranquilla e ubbidiente.
- E... ?
 Martina scuote la testa, contrita: - No, mi dispiace, ancora nulla… - poi cambia discorso - allora, com'è andata con l'architetto? Ha visto i disegni? Che ha detto? Ti ha invitato a cena?
Scoppia a ridere: - Dai disegni all'invito a cena. Certo che ne hai, di fantasia.
- Uffa! Che ci sarebbe di strano? - sbotta la ragazza. - Lui è lo scapolo più affascinante della città e tu sei sexy come le stelline che affollano le copertine delle riviste. Se sciogliessi quei superbi capelli corvini e indossassi una gonna più corta di qualche centimetro, lo faresti capitolare in tre secondi.
Giulia sorride, indulgente: - Vado in ufficio per lavorare, non per sedurre il principale. I disegni comunque li ho lasciati: ha detto che li guarderà. E' stato gentile, mi ha perfino chiamato per nome, e non era mai successo.
- E vai! - esulta la giovane. - Lo sapevo, alla fine doveva accorgersi di te.
Scuote la testa, rassegnata: - Su, adesso smettila di farneticare e vattene. Non dovevi uscire con il tuo ragazzo, stasera?
- Oddio, sì, ed è tardissimo! Ciao, ci vediamo domani. - si china a baciare la bimba e scappa di corsa, precipitandosi giù per le scale.

Dormi, dormi, piccolina/’che la mamma ti è vicina/ fai la nanna, bimba bella/ del mio cielo sei la stella.
Giulia ha un tuffo al cuore: la ninna nanna che canta a sua figlia tutte le sere per farla addormentare. Si volta a guardare Viola; la piccola è seduta sul tappeto e culla la sua bambola.
Dormi e sogna dolce amore/ fiorellino del mio cuore.
Una vocetta delicata, armoniosa, intonata.
Dormi, dormi, fai la nanna/ tra le braccia della mamma.
Viola sta cantando tutta la filastrocca senza sbagliare una sillaba. Lo shock è talmente violento che Giulia ha smesso di respirare; guarda sua figlia pensando di essere preda di un'allucinazione. Teme che, se farà un gesto o dirà una sola parola, quella magia svanirà.
- Il telefono, il telefono! - strilla la piccola che si è alzata di scatto ed è corsa a frugare nella borsetta. Trotterella verso di lei con il cellulare in mano: - Tieni, rispondi.
Torna a sedersi sul tappeto e ricomincia da capo la canzoncina. Giulia è talmente frastornata che fatica a riconoscere la voce all'apparecchio.
- Pronto, Giulia? Sono Francesco.
- Ah, è lei, dottore...
- Basta con questo “dottore”. Chiamami Francesco e dammi del tu. Ho visto i disegni. Dire che mi hanno colpito sarebbe riduttivo. Li ho trovati... grandiosi, ecco! Non saprei con quale altro aggettivo definirli. Senti, dobbiamo parlarne, ma non vorrei aspettare fino a domani. Possiamo vederci subito?
Giulia fa uno sforzo per seguire quel fiume di parole e, allo stesso tempo, prestare attenzione alla voce di Viola che continua a cantare. Si sente confusa.
- Adesso, dottore... cioè, Francesco? Ma non posso lasciare sola la bambina…
- Nessun problema, - la interrompe con entusiasmo, - vengo io da voi e porto qualcosa per cena. Sai che esiste il take away? - ride, poi il tono si addolcisce. - Giulia, non prendermi per pazzo, ma ho bisogno di parlarti, e non solo dei disegni. Ho capito di avere molte cose da dirti e non vedo l'ora di conoscere Viola. Ti prego, posso venire?
- D'accordo, Francesco, Viola ed io ti aspettiamo.
Chiude la chiamata e crolla sulla sedia, esausta. Rimane ancora per qualche istante a inebriarsi della vocetta infantile, poi la chiama: - Viola, tesoro, vieni qua. Vieni dalla mamma.
La piccola posa la bambola, corre verso di lei e si arrampica sulle sue ginocchia. Le scioglie il nodo che tiene raccolti i capelli e affonda le manine nelle fluenti onde scure.
- Come sei bella! Perché piangi? - Con le dita delicate cerca di asciugare le lacrime che le rigano il volto.
Se la stringe forte al petto: - Perché sono felice, amore mio... ti voglio bene, Viola.
La piccola ride di gioia: - Anch'io ti voglio tanto bene, mammina.

Giulia piange, e ride, e la soffoca di baci. Il successo professionale e l'attenzione dell'uomo che ama sono importanti, ma è quella la conquista più straordinaria della sua vita. Tre piccole sillabe che compongono la parola più dolce del mondo, la parola che sua figlia ha finalmente pronunciato: mammina.

sabato 7 novembre 2015

La Signora del bosco





«Tramontana scura, acqua sicura».
Nel bar del porto, l’unico avventore alza gli occhi dal giornale sportivo; getta un’occhiata infastidita al tipo che è entrato portando con sé una folata di vento gelido, ha pronunciato quella frase ed è scoppiato subito dopo in un accesso di tosse.
- È solo l’idiota di Giampiero, il barbone – pensa, e con un’alzata di spalle torna a interessarsi alle prodezze della sua squadra preferita.
«Giampi, chiudi la porta che stamani fa un freddo cane!» inveisce Giorgio, il gestore. «Sei venuto a scroccare la colazione come al solito? Puntuale come le tasse e molesto come un tafano. Perché non provi a cambiare zona, ogni tanto?» ride.
«Grazie al Cielo, io non so nemmeno come sia fatta una cartella delle tasse» replica Giampiero con un sorriso sdentato, «e questo è l’unico locale aperto in tutta la darsena».
«Quindi non sei qui per scelta, ma per necessità. E io, povero illuso, che mi sentivo onorato della tua presenza…» ironizza l’altro, mentre carica il filtro con la miscela tostata e lo avvita nella macchina.
«Vengo a trovarti per il piacere della tua compagnia, e perché so che tieni sempre un “caffè sospeso” per un povero senzatetto come me. Se poi ti avanzasse qualche pastarella… vanno bene anche quelle di ieri».
«Per chi mi hai preso?» sbuffa Giorgio, fingendosi indignato. «Non accadrà mai che uno dei miei clienti consumi qualcosa che non sia freschissimo. Scegli quello che vuoi,» indica la vetrina dov’è esposta la pasticceria, «è tutta roba di prima qualità».
«Fai finta di essere burbero, ma in fondo sei un buon diavolo» sospira Giampiero. «Il Cielo te ne renderà merito».
Giorgio scuote la testa: «Starei fresco se aspettassi l’aiuto del Cielo. Di questi tempi, se non ci rimbocchiamo le maniche e non ci diamo una mano tra di noi…» appoggia sul bancone una tazzina fumante, insieme a un vassoio con tre brioche. «Adesso mangia, che con questo freddo ti servono un po’ di calorie. Sei pelle e ossa e hai una tossaccia che non mi piace per nulla. Dovresti farti vedere da un medico e coprirti di più. Mia moglie ti ha mandato un giaccone smesso di nostro figlio; ti starà un po’ largo, ma è imbottito e ha un cappuccio foderato di pelo. Se non ti offendi…»
«L’unica cosa che mi offende è vedere piangere di dolore un bambino» replica il barbone. «Ringrazia la tua signora, amico, e portale questi da parte mia» tira fuori un involto di tela da sotto il pastrano logoro e lo appoggia con delicatezza sul bancone.
Giorgio ne solleva i lembi per scoprire cosa contenga, e una pungente fragranza di sottobosco gli solletica le narici; sbarra gli occhi dallo stupore alla vista dei cinque superbi funghi, turgidi e scuri, adagiati in un letto di muschio e umidi di rugiada.
«Porcini in questa stagione? Sono una meraviglia, dove li hai trovati?»
«Non posso svelarti tutti i miei segreti» gli strizza un occhio, «diciamo che ho degli amici, nel bosco, e loro mi danno qualche dritta…»
«Ah, sì, certo: gli elfi» sorride Giorgio, «I tuoi amici magici, quelli con la pelle verde e le orecchie a punta che vivono nel bosco. Sono loro che ti hanno fatto trovare i funghi; come ho fatto a non pensarci?»
«Zitto, abbassa la voce…» Giampiero indica con un cenno della testa l’uomo seduto a un tavolino, immerso nelle pagine rosa del quotidiano sportivo. «Gli elfi non vogliono che si sappia della loro esistenza. Il mondo non è ancora pronto a capire».
«D’accordo, ma spiegami una cosa: come mai solo tu riesci a vederli? Sono stato centinaia di volte nella macchia, in cerca di funghi e asparagi selvatici, ma non ho trovato altro che buche scavate dai tassi e orme di cinghiali, e mi sono imbattuto soltanto in lepri, daini e scoiattoli. Di elfi o altre creature magiche, nemmeno l’ombra».
«Sono sicuro che un giorno riuscirai a vederli anche tu perché hai l'anima pura di un bambino. Quando ti libererai dai lacci della ragione e smetterai di farti domande, le risposte verranno da sole. Vai nella selva e lasciati pervadere dal tuo amore per la natura; aprile il cuore, diventa un tutt'uno con essa. Devi respirare nel vento, piangere nella pioggia, cinguettare con gli uccelli, guardare l’erba che spunta… solo allora le divinità del bosco potranno manifestarsi ai tuoi occhi. Ma devi credere alla loro esistenza. Ricorda: bisogna avere fede per vedere l’invisibile.»
Giorgio scuote la testa, sorridendo bonariamente. Ormai è abituato ai vaneggiamenti di Giampiero, e spesso, se non ha troppo lavoro da sbrigare, s’intrattiene a chiacchierare con lui e ascolta volentieri le sue storie fantastiche.
Nessuno sa chi sia Giampiero: è piovuto nel piccolo paese rivierasco un anno fa, in una fredda giornata d’inverno come quella di oggi. Una tramontana gelida spingeva i cirri minacciosi e gonfiava le onde del mare, che muggiva come un toro ferito. L’uomo, avvolto in un tabarro di tela cerata lungo fino ai piedi, una nuvola di capelli candidi e barba incolta su una fitta ragnatela di rughe, è entrato nel locale, portando con sé l’odore di pioggia e terra bagnata. Ha sorriso con i pochi denti ingialliti, e gli occhi, azzurri come un cielo d’aprile, hanno aperto una breccia nell’anima del gestore.
«Buon giorno, brav’uomo» ha esclamato con la voce limpida di un bambino, «vi avanza un caffè per il vecchio Giampiero?»
È stato un comprendersi al primo sguardo, come ritrovare una persona cara che si credeva perduta, un amico di quelli che puoi anche non vedere né sentire per anni, ma che sono sempre lì, dentro il cuore. Da quel giorno, non c’è una mattina che Giorgio non spii con ansia la porta del bar e non tiri un sospiro di sollievo nello scorgere, tra le facce dei clienti, quella rugosa e sorridente del vecchio. Ha provato molte volte a offrirgli ospitalità, soprattutto nel periodo più rigido dell’anno, ma l’altro ha sempre rifiutato; d’estate dorme sulla spiaggia, e durante l’inverno trova riparo dentro un vagone pieno di ruggine, abbandonato su un binario morto della stazione ferroviaria. Accetta solo qualche caffè, un po’ di cibo, coperte e abiti smessi, e ricambia la cortesia con piccoli doni: funghi, more, lamponi, fragole selvatiche, pigne cariche di pinoli che raccoglie nella macchia, cannolicchi e altri molluschi straccati dal mare. È un uomo libero, Giampiero: la libertà rappresenta la sua unica ricchezza, la sola cosa alla quale non rinuncerebbe mai.
«Grazie, amico mio, adesso però devo andarmene».
«Dove vuoi andare, con questo tempaccio?» protesta Giorgio. «Ha cominciato a tuonare e tra poco verrà giù la fine del mondo. L’hai detto anche tu poco fa: tramontana scura, acqua sicura. Rimani qui al caldo e stasera vieni a casa con me. Mia moglie ne sarà felice».
«Non posso, davvero, ma ti ringrazio di cuore. Lei mi sta aspettando…» il vecchio ha abbassato il tono in un sussurro confidenziale. «Diventa triste se non mi vede, ed io non voglio che sia triste per colpa mia».
«Lei, chi?» domanda Giorgio, perplesso.
«Shh, parla piano, amico. Lei… te ne ho parlato più di una volta, ricordi?»
«Vuoi dire la bellissima fanciulla dalla pelle verde e i capelli d’argento che vive nello stagno? Suvvia, Giampi, sii ragionevole: nessuno sguazzerebbe nello stagno con un temporale in arrivo. Anche gli animali cercano un riparo sicuro, quando le forze della natura si scatenano…»
«Lei non è un animale!» lo interrompe con veemenza. «Lei è la regina del bosco, la signora dell’acqua e del vento. Non teme la natura perché la domina e la governa. E adesso mi sta aspettando…»
Senza aggiungere altro, butta giù l’ultimo sorso del suo caffè, saluta con un cenno della mano e gira sui tacchi, raggiungendo la porta. Si volta un attimo, lo fissa come se volesse imprimersi il suo volto nella memoria, gli regala un sorriso e schizza fuori.
«Aspetta un momento!» gli urla dietro Giorgio. «Non hai preso nemmeno il giaccone. Ti bagnerai fino alle ossa…»
Inutile: Giampiero si è già dileguato nel brontolio dei tuoni.
«Lascialo stare, quello,» sbuffa l’altro cliente, girando una pagina del giornale, «lo sanno tutti che è un povero pazzo visionario. E deve essere anche malato: hai sentito che tosse? Uno di questi giorni, sparirà così com’è apparso e non sentiremo più parlare di lui.
«Già,» sospira Giorgio, scuotendo la testa, «mi sembra che stia sempre peggio… ma è testardo come un mulo e non vuole saperne di farsi curare. Temo che gli accada qualcosa di brutto…»
Il suo interlocutore solleva le spalle con noncuranza. «Non sarà una gran perdita… Ma parliamo di cose serie: hai visto la partita, ieri sera?»

Ha fretta Giampiero. Accelera i passi e il vento amico lo sospinge; gli sembra quasi che i piedi non tocchino terra. È una sensazione meravigliosa assecondare il respiro della tramontana: fluttua leggero come un soffione di tarassaco. Il dolore è scomparso e si sente bene, per la prima volta dopo tanto tempo. L’elisir di erbe e rugiada che gli ha donato la signora del bosco, ha alleviato le sue sofferenze fino ad annullarle del tutto. Se non fosse per la tosse che lo lascia senza forze, e per il catarro sanguinolento che espettora durante gli attacchi convulsi, crederebbe di essere guarito. Sa che non è possibile, glielo ha detto lei, con la voce melodiosa incrinata dal rammarico:
«Posso far sì che tu non soffra, posso regalarti un po’ di quello che voi umani chiamate “tempo”, ma non posso sottrarti al tuo destino».
Giampiero è consapevole che non gli resta molto da vivere, anzi, è già vissuto più di quanto avrebbe dovuto. Sa di essere condannato da quando ha cominciato a sputare sangue vivo, e si è deciso a rivolgersi all’ospedale di uno dei tanti paesi nei quali il suo peregrinare l’ha condotto.
«La lesione polmonare è estesa, si riscontrano danni ai bronchi e metastasi diffuse» ha sentenziato il dottore, indicando una macchia nella lastra radiografica. «Temo che la chirurgia sia inutile, ma con un trattamento combinato di radio e chemioterapia, si può sperare nel prolungamento delle aspettative di vita. Sei mesi, forse un anno…»
Ne sono passati due, di anni, e senza che si sia lasciato torturare dai medici. Del resto, vivere per lui non era più importante, non dopo aver perso tutto. Il figlio, morto nell’incidente automobilistico causato da un colpo di sonno e dal quale lui, che ne è stato responsabile, è uscito quasi indenne. La moglie, che non gli ha perdonato la colpa e se n’è andata, dopo avergli vomitato addosso il suo disprezzo. Il lavoro perduto, gli amici che ha allontanato… non c’era più nulla per cui valesse la pena di stare al mondo. Ha venduto la casa, ha depositato i soldi su un conto corrente intestato alla moglie ed è saltato sul primo treno in partenza, senza nemmeno sapere dove fosse diretto. Da quel giorno, ha vagato da un posto all’altro, dormendo dove capitava e mangiando quando poteva. È vissuto di espedienti, grazie alla generosità del prossimo, finché le scarpe sfondate l’hanno portato in quel paese di mare. Un pugno di casupole di pescatori incastonate fra dune selvagge, degradanti in una spiaggia di sabbia bianca, e una pineta centenaria con un sottobosco di lussureggianti arbusti sempreverdi.
- Se esiste un Paradiso sulla Terra – ha pensato Giampiero quando ha trovato quel luogo incantevole, – non può essere che questo. È qui che voglio morire. – Ed è rimasto lì, a respirare con i sui polmoni condannati l’aria salmastra e godere dei tramonti infuocati. Ormai conosce i paesani uno a uno, e tutti, salvo poche eccezioni, lo trattano con cordialità. Gente di mare, gente semplice dal cuore grande, come i marinai che la sera rientrano al porticciolo sui pescherecci e gli regalano una cassetta di pesce, o gli ambulanti del mercato che tengono in serbo per lui un po’ di frutta e verdura di stagione. E come Giorgio, il suo migliore amico, forse l’unico amico vero che abbia mai avuto. Per Giampiero è come un figlio, e gli assomiglia anche un po’ a quel figlio tanto amato, morto per colpa sua. Ha gli stessi occhi limpidi e la stessa nobiltà d’animo. Giorgio è il solo con il quale abbia parlato delle creature magiche. Sa che l’uomo non crede all’esistenza degli elfi, ma un giorno capirà, e quel giorno loro sapranno trovarlo.
Una folgore squarcia la coltre di nubi; le fa seguito un boato assordante. Le prime gocce di pioggia gli sferzano la faccia, insieme agli spruzzi salati delle onde che s’infrangono con violenza contro la barriera frangiflutti. Giampiero accelera il passo. Deve fare presto: non gli resta molto tempo e lei lo sta aspettando. Spinto dalla tramontana, percorre quasi di corsa la banchina del molo, attraversa la rimessa delle barche e imbocca il sentiero che dalla darsena conduce alla pineta. Le chiome dei pini secolari danzano nel vento; intonano tutte insieme una sinfonia di suoni che fa da contrappunto al rimbombo del temporale in arrivo. Il bosco piange, ride, respira, esulta grato alla pioggia, geme scricchiolando alle folate del vento, trema al fragore dei tuoni, rabbrividisce di terrore allo schianto dei fulmini. Le sente quelle voci, le riconosce una a una, e fra tutte, distingue quella di lei che lo chiama. - Che strano – riflette - sono arrivato qua con la tramontana, in un giorno identico a questo, e sarà la tramontana a portarsi via la mia anima. –
Non teme la morte, non ne ha paura: lei gli ha detto che non deve avere paura.
«La morte è solo il compimento di un ciclo» ha sussurrato, fissandolo con gli occhi verdi come le foglie delle ninfee, «non devi temerla. Rinascerai nella spuma delle onde, nella sabbia sottile delle dune, nel profumo delle bacche di ginepro e nello stormire degli aghi di pino. Sarai la terra, l’acqua, l’aria e il fuoco. Germoglierai insieme ai fiori, piangerai nella rugiada, respirerai nella brezza e arderai nel sole».
Quanta consolazione gli regalano ogni volta quelle parole! Riescono perfino a lenire il dolore per la morte del figlio, che ancora, dopo due anni, gli strazia l’anima più di quanto le metastasi del cancro non torturino il corpo. Giampiero non sa perché gli elfi abbiano voluto manifestarsi proprio a un miserabile come lui, ma non si fa domande. Ha smesso di farsi domande da molto tempo, da quando la sua vita, e quella delle persone che amava, è andata in pezzi per la scelleratezza di un attimo. Da allora, non ha desiderato altro che pagare la sua colpa, e non ha neppure provato a cercare conforto in quel Dio che si è dimenticato di lui. Non ha fatto che vagare senza meta, inseguito dai suoi fantasmi, in cerca di un posto dove lasciarsi morire. Il giorno che quel medico ha previsto con tanta approssimazione, alla fine è arrivato. L’ha capito appena ha aperto gli occhi e ha sentito il ringhio della tramontana scuotere le lamiere del vagone ferroviario. Come ogni altra mattina, ha ripiegato con cura la coperta sul pagliericcio improvvisato, ha indossato il pastrano e gli scarponi ed è uscito. Dalla stazione, si è incamminato verso il porto per dare un ultimo saluto al mare, poi si è recato al bar. Giorgio non voleva lasciarlo andare, quasi sentisse che non l’avrebbe più rivisto. Non gli ha detto nulla, ha preferito salutarlo con un sorriso e andare incontro al suo destino accompagnato soltanto dal vento.
Man mano che avanza nel cuore del bosco, la vegetazione diventa più fitta e il sentiero si assottiglia, fino a scomparire nel letto di muschio e aghi di pino. Ormai nemmeno la luce riesce a filtrare nell’intreccio intricato degli arbusti, ma Giampiero non ha bisogno di vedere. Ha fatto quel percorso centinaia di volte, conosce ogni pietra, ogni cespuglio, ogni filo d’erba. Ecco, è arrivato: scosta con la mano una barriera di rampicanti che, dall’alto dei pini, ricadono fino a terra, ed entra nel tempio.
Il tempio: è così che l’ha chiamato, fin dalla prima volta che i suoi occhi stupefatti hanno ammirato ciò che a nessun altro essere umano era stato concesso di ammirare. Una sorta di cupola formata dalle chiome degli alberi e delimitata dai tronchi ricoperti di edera, irradiata da una luccicante luce verde. È rimasto abbagliato da quella luce ed è crollato in ginocchio, timoroso, come se si trovasse in un luogo sacro. Quando è riuscito di nuovo a focalizzare le immagini, ha visto un piccolo stagno immerso in un prato fiorito. Nello specchio d’acqua, tra un tripudio di ninfee bianche, decine di creature fatate rendevano omaggio a una fanciulla bellissima, seduta su una pietra coperta di muschio. La pelle di quelle creature era di un verde pallido e luminescente, gli occhi dal taglio allungato e le orecchie leggermente appuntite. Giampiero aveva visto qualcosa di simile solo nei libri di fiabe che leggeva a suo figlio quando era piccolo, ma non avrebbe mai immaginato che gli elfi del bosco esistessero davvero, e che lui li avrebbe avuto il privilegio d’incontrarli. Si è strofinato gli occhi, convinto di essere vittima di un’allucinazione; quando li ha riaperti, ha incontrato quelli della fanciulla e si è sentito, per un attimo, immensamente felice.
Felice com’è adesso, che lei lo sta di nuovo guardando e gli sorride.
«Sei venuto… ti stavo aspettando» scuote la folta chioma argentea, intrecciata con fiori di biancospino, e gli fa cenno di avvicinarsi con la mano sottile.
Giampiero entra nello stagno. Non sente freddo e non ha paura. Il vento gelido e il brontolio dei tuoni hanno ceduto il posto a un tiepido refolo primaverile e alla melodia di migliaia di uccelli. La regina del bosco sorride, ed è un sorriso che riscalda l’anima. Con l’altra mano, gli porge una ciotola scavata nella corteccia.
«Bevi. Non sentirai più dolore e ti addormenterai. La terra ti sarà lieve e dai tuoi umori germoglieranno i suoi frutti. Sarai un fiore nel vento, una libellula dalle ali colorate, un gabbiano che stride volando verso il sole».
Giampiero beve, grato; chiude gli occhi e si addormenta sereno.



giovedì 10 settembre 2015

Non ci sei






Questo sole che scalda la pelle,
questa brezza che asciuga le lacrime,
questo cielo terso ove migrano i pensieri...
oh, come li detesto!

Non sei qui, non ci sei...
E vorrei che il sole si spegnesse,
vorrei trasformare il vento in bufera,
vorrei che il cielo si spaccasse
e precipitassero giù tutte le stelle
a spazzare via questo frammento d'universo!

Vorrei piangere, e gridare, e strapparmi la pelle...
Ma le lacrime evaporano al sole,
e la voce si perde nel vento,
e la rabbia impotente
rimbalza contro l'azzurro del cielo...

E io resto qui, da sola, senza te,
e sorrido mentre vorrei morire,
stiro le labbra a scoprire i denti e sorrido,
sorrido con gli occhi di ghiaccio,
sorrido al mondo
che vorrei incenerire tra le fiamme dell'odio.
Sorrido... e tu non ci sei.



martedì 8 settembre 2015

Il fiore delle mille e una notte




Mille e una notte i tuoi piedi leggiadri 
hanno battuto questo viale oscuro, 
orchidea nera della foresta pluviale.

Mille e una lacrima hanno versato ogni notte
i tuoi grandi occhi dalle ciglia di farfalla; 
mille e una carezza hanno sfiorato la tua pelle creola 
sotto lo sguardo indifferente della luna.

Mille e un bacio rubati alla corolla delle tue labbra 
dalle bocche carnivore di tutti quegli uomini 
che giuravano amore e non sapevano amare.

Mille volte mille più uno 
i fremiti della tua anima soffocati dall'indifferenza, 
i sospiri e i ricordi, le speranze e le disillusioni.

E in ciascuna di quelle mille e una notti, bruna incantatrice, 
hai regalato il tuo corpo e il tuo cuore al primo passante frettoloso 
senza neppure guardarlo negli occhi, 
perché sapevi che quegli occhi erano uguali a mille altri occhi, 
e le parole gettate nel vento identiche a mille altre parole.


Mille e una notte hai vegliato in questo angolo oscuro del mondo, 
e mille e una notte passeranno ancora nell'attesa del nulla, 
nero fiore del peccato che sospiri all'insensibile luna.

Premiazione VIII edizione del Premio Fogazzaro

Premiazione VIII edizione del Premio Fogazzaro

giovedì 30 luglio 2015

Mira al cuore - dalla raccolta "Gente che scrive western" del gruppo f.b. Gente che scrive per...



Immagine web modificata.

Magnolia getta uno sguardo ai quattro uomini impegnati in un’interminabile partita di poker: tre di loro sono frequentatori assidui del saloon, il quarto è un forestiero, un messicano, e appena l’ha visto ha fiutato odore di guai. Ormai li riconosce alla prima occhiata: bounty killer senza scrupoli, avventurieri a caccia di fortuna, ex cercatori d’oro frustrati, attaccabrighe e puttanieri.
Le “mani” sono scivolate via con alterna fortuna, ma l’ultima sta prendendo una brutta piega: sul piatto, manciate di Eagles annegano tra mucchi di Green-backs, e i rilanci sono sempre più pesanti. Che tutti e quattro abbiano un gioco vincente è impossibile: qualcuno sta bluffando. Gran brutta faccenda.
«Qui ci scappa il morto.»
La voce del barista, appena un sussurro, dà corpo alle sue preoccupazioni. Si volta a guardarlo: è grigio come lo straccio che usa per lucidare il bancone di mogano, le labbra tremano sotto i baffi sottili e gli occhietti di un azzurro annacquato brillano eccitati nelle orbite.
«Presto, corri ad avvertire Luke.»
«Non arriverà in tempo… forse sarebbe meglio chiamare direttamente il becchino.»
L’occhiata di Magnolia lo fa ammutolire; biascica di mala voglia un “okay” e sgattaiola dal retro, borbottando che, “dannazione, per una volta che succede qualcosa in quella sperduta cittadina della nuova frontiera, dimenticata da Dio e dagli uomini, non può nemmeno godersi lo spettacolo.”
«Passo…» John Lester, un ranchero che ha dilapidato i suoi averi sui tavoli da gioco, sbatte giù le carte con un moto di stizza. Afferra il bicchiere e tracanna d’un fiato l’intruglio scuro spacciato per whisky di ottima qualità, imprecando contro la sorte.
«Anch’io…» sospira il giovane Will Drake, l’aiutante fabbro, grattandosi la testa color carota. «Mi sono fottuto tre mesi di paga. All’inferno!»
Il forestiero piega le labbra in un ghigno e allunga una mano per arraffare la posta.
«No, fermo!» tuona paonazzo Mister Johnson, il proprietario della banca, stringendo le carte bisunte tra le dita simili a salsicciotti. «La partita non è ancora finita, straniero! Vediamo cosa rispondi a questo…» caccia fuori dal panciotto una “cipolla” d’argento massiccio, sgancia la catena e la scaraventa nel mucchio.
Il messicano non si scompone: non un solo muscolo della faccia butterata tradisce le sue emozioni. Fissa l’uomo seduto di fronte che gronda sudore come una padella crivellata dalle pallottole, poi solleva un lembo del poncho ed estrae un sacchetto di cuoio; scioglie il laccio e fa rotolare sul tavolo una mezza dozzina di pepite d’oro, sotto gli occhi allibiti degli astanti.
«Credo che queste possano bastare per vedere il vostro gioco, Señor,» replica beffardo.
Mister Johnson strabuzza gli occhi alla vista della piccola fortuna e distende le carte con l’espressione famelica del gatto che sta per ghermire il topo.
«Quattro donne!»
«Non bastano contro un poker d’assi…»
La faccia del banchiere vira di botto dal rosso al verde, per scolorare in un pallore di cera.
«Non è possibile! Scopri le carte, figlio del demonio!» sbotta, in preda a un tremore convulso.
Nel saloon è calato un silenzio glaciale: il suonatore di banjo ha smesso di strimpellare una malinconica versione di Red river valley e le “ragazze” hanno guadagnato in fretta la scala di legno che porta al piano superiore, per mettersi al sicuro nelle loro camere. Magnolia fa scorrere la mano lungo il fianco fino a incontrare un rigonfiamento sotto le gonne: la Derringer è lì, trattenuta dalla giarrettiera. Una donna sola, proprietaria di un saloon, dev’essere pronta a difendere ciò che ha conquistato sputando sangue, oppure a vendere cara la pelle. La piccola pistola dal grosso calibro è un’arma micidiale, ma la distanza dai giocatori e la mira imprecisa complicano le cose. Spera di mantenere i nervi saldi e il controllo della situazione fino all’arrivo dello sceriffo Marshall.
Lukas Marshall, soprannominato Tornado Luke per l’abilità nel maneggiare le sue colt navy intarsiate d’avorio, pericolose come la furia delle violente tempeste del Texas, ha l’animo aspro delle Montagne Rocciose e gli occhi verdi come le grandi praterie. Si sa ben poco di lui, e nessuno conosce il suo passato: nell’ovest non si fanno mai troppe domande, soprattutto a chi preferisce rispondere con la pistola. Se Magnolia potesse concedersi il lusso d’amare, sarebbe al bel texano triste che penserebbe, e se sperasse in una vita rispettabile lontano da quel lurido posto, sarebbe con lui che salterebbe su uno dei treni sferraglianti della ferrovia che taglia in due la città. Ma un’ex prostituta, proprietaria di un locale equivoco, non può permettersi di sognare. Luke capita di rado nel saloon; la notte che lo trovò ubriaco nel suo letto provò più sorpresa che indignazione. L’esperienza le aveva insegnato che una donna ha due soli argomenti per avere la meglio con un uomo, il sesso o una pistola carica, quindi tirò fuori la Derringer e gliela puntò contro: «Togli quegli stivali sporchi dalle mie lenzuola e porta le tue chiappe fuori da qui, cowboy!»
Luke si sollevò a sedere, la fissò in silenzio con gli occhi luccicanti di verdi bagliori, poi afferrò i bordi della camicia con entrambe le mani e se l’aprì sul torace vigoroso.
«Sparate, Madame…» la voce era ferma nonostante il whisky che aveva bevuto; arricciando le labbra in un sorriso mesto passò al tu: «Spara, dolcezza, e mira al cuore.»
Magnolia ebbe la folgorante certezza che, per quell’uomo, non faceva alcuna differenza continuare a vivere o morire lì, in quel preciso instante, nello squallido letto di una puttana da saloon. Provò pietà per lui e per se stessa, e gli occhi che non piangevano da secoli si riempirono di lacrime. Rimase a fissarlo sbigottita, con la pistola stretta fra le mani scosse dal tremito; lui si alzò e con cautela gliela tolse dalle dita, poi la prese tra le braccia e la baciò. Il suo alito puzzava di alcool ma le labbra erano morbide, e delicate le mani che scioglievano i lacci e s’insinuavano sotto le vesti. Senza quasi rendersene conto si ritrovò a letto, avvinghiata a lui, nuda tra le sue braccia forti, e fecero l’amore per tutta la notte senza dire una parola, con una dolcezza che non aveva mai conosciuto.
Solo ai primi chiarori dell’alba, mentre Luke si riposava a occhi chiusi con la testa appoggiata al suo ventre, trovò il coraggio di fargli quella domanda: «Perché desideri la morte?»
Dopo un lungo silenzio l’uomo, con voce incolore, le raccontò la storia di un giovane Ranger, pieno d’ideali e convinto di agire in nome del nuovo stato dalla stella solitaria e in difesa dei pionieri colonizzatori dagli attacchi dei nativi, fino a quell’incursione in un villaggio Comanche sulle rive del Rio Grande. Una strage scellerata di vecchi, donne e bambini, un orrore che non avrebbe più dimenticato fino all’ultimo istante della sua vita. Aveva restituito la stella, era fuggito dal Texas e aveva trascorso quasi vent’anni vagando per gli Stati dell’Unione, inseguito dai suoi fantasmi. Non si fermava mai a lungo nello stesso posto e non aveva amici, tranne il suo cavallo e le sue colt, che sapeva usare piuttosto bene. Decise di metterle al servizio della legge degli uomini, poiché ormai aveva abiurato quella di Dio, e divenne uno dei più temuti bounty hunters del west. Catturò e assicurò alla giustizia delinquenti di ogni genere: preferiva prenderli vivi, a meno che non fosse costretto a farli fuori per difendere la propria vita. Arrivò in città in un’alba livida di due anni prima, trascinandosi dietro due fuorilegge legati ai cavalli: facevano parte di una banda che da mesi seminava terrore rapinando banche e assaltando treni e diligenze, e sulle loro teste pendeva una grossa taglia. I due furono processati e condannati a penzolare da una forca, ma agli altri tre non era toccata una sorte migliore: le colt di Luke non avevano lasciato loro nemmeno il tempo di recitare l’ultima preghiera. La notizia del pistolero texano che, da solo, aveva sgominato un’intera banda, fece rapidamente il giro della città, e i notabili si affrettarono a offrirgli un ingaggio come sceriffo, carica vacante dalla morte del precedente difensore della legge. La paga era modesta, ma si trattava di un lavoro come un altro e Luke era stanco del continuo vagabondare: si sentiva vecchio, le confessò, e forse in quell’angolo di mondo ai confini della civiltà avrebbe trovato un po’ di pace…
«Vedo solo tre assi… dov’è il quarto?»
La voce di Mister Johnson riporta Magnolia al presente. Il messicano estrae una colt dalla cintura e la posa accanto alle tre carte scoperte.
«Ecco l’asso di cuori, Señor…» ghigna.
«Ma che diavolo…» il banchiere sussulta sulla sedia, rosso di collera, fra il mormorio generale, ma lo straniero estrae rapidamente la seconda colt e gli piazza la canna in mezzo alla fronte, bloccando le sue rimostranze.
«Vorreste affermare che sto barando, Señor?» sibila, beffardo. «Qualcun altro ha qualcosa da ridire?» gira intorno lo sguardo, a interrogare i presenti. Nessuno osa fiatare.
«Bueno! Siete tutti testimoni che questo è un poker d’assi.»
«È solo un tris… e voi siete un imbroglione!» Magnolia gli è arrivata alle spalle in silenzio e gli ha puntato la Derringer alla testa. «Non voglio bari nel mio locale. Avete tre secondi per alzarvi da quella sedia e andarvene lontano da qui.»
Il messicano solleva lo sguardo su di lei e la bocca dai denti radi si allarga in un sorriso divertito: «Caramba, Señora! Usted tiene más valor que todos estos cobardes! Pero es muy peligroso jugar con este…» rapido come il fulmine, si alza di scatto e le strappa la pistola di mano. Prima che la donna abbia il tempo di reagire, le passa un braccio intorno alla vita e la immobilizza. Magnolia sente il freddo bacio della bocca d’acciaio della colt premuta contro la tempia.
«Lo siento, Señora, ma devo chiedervi di rimanere immobile e in silenzio. Sería una pena hacer daño a una flor tan hermosa. Ahora sólo tenemos que esperar…»
«Chi dobbiamo aspettare?» chiede Magnolia con un filo di voce.
«Usted lo sabe muy bien…» ride il messicano, «il nostro magnifico sceriffo! Credete che non sappia dov’è finito il barista? Yo no soy tonto, Señora.»
«Oggi è il tuo giorno fortunato, bastardo,» tutti gli occhi si voltano nella direzione dalla quale proviene la voce. La sagoma dello sceriffo Marshall, pistole in mano e sguardo di ghiaccio, si staglia nel vano della porta spalancata. «La tua attesa è terminata. Lascia la donna e getta la colt, se ci tieni a uscire da qui con le tue gambe.»
Il messicano prorompe in una fragorosa risata: «Buenas tardes, gringo, finalmente ci incontriamo!»
«Chi diavolo sei?» replica Luke. «Che sia dannato se ho mai visto il tuo sporco muso!»
«Es verdad, tu non mi conosci, ma hai conosciuto mio fratello: l’hai ammazzato ad Abilene, e l’hai lasciato con la faccia nella polvere come un cane rognoso. Manuel Gutierrez: ricordi questo nome, Tornado Luke?»
«Manuel Gutierrez… baro di professione, assassino e stupratore, ricercato in tutti gli stati dell’Unione. Certo che lo ricordo: gli ho dato la caccia per mesi. Fu lui a sfidarmi e l’ho ucciso in un duello regolare. Adesso posa le armi e arrenditi, se non vuoi fare la stessa fine!»
«Non sono venuto a stanarti da questo buco per perdere tempo in chiacchiere, hombre, ma per pareggiare i conti: il tuo sangue per il sangue di Manuel! Uno di noi due non vedrà l’alba di domani, e quello non sarò io…» minaccia il messicano con un lampo d’odio negli occhi.
«Okay,» replica lo sceriffo imperturbabile, «per morire un giorno vale l’altro. Ti aspetto fuori, così’ la facciamo finita…» gira sui tacchi ed esce, senza nemmeno sentire il “No, Luke, aspetta!” gridato da Magnolia.
«Adiós, Señora, è stato un piacere conoscervi…» il messicano le fa un lieve inchino e guadagna la porta del saloon.
Per alcuni, interminabili istanti, nessuno osa muoversi, e la donna sente l’angoscia dilagarle nel cuore e paralizzarle le membra. Si riscuote al rumore secco di due spari quasi simultanei e si precipita fuori, gridando il nome dello sceriffo. Luke è in piedi in mezzo allo spiazzo di terra battuta antistante al saloon, con la pistola ancora stretta nel pugno. Vivo! Pazza di felicità corre verso di lui, e solo in quel momento vede il corpo del messicano riverso a terra, con gli occhi spalancati al cielo.
«Se credi in qualche Dio, recita una preghiera per lui…» mormora lo sceriffo. «Anche se penso che la sua anima bruci già tra le fiamme dell’inferno…» Magnolia sospira di sollievo e lo abbraccia, strappandogli una smorfia di dolore. Lo guarda: Luke è pallido come uno straccio e con la mano sinistra si comprime il petto, appena sotto il cuore, dove si allarga una chiazza di sangue. Vacilla tra le sue braccia e si accascia in ginocchio nella polvere. «Ed io sto per raggiungerlo…» termina con un filo di voce.
La donna s’inginocchia accanto a lui e lo stringe forte; la sua mente rifiuta di accettare l’evidenza: «Coraggio… ti porto dal dottore…»
«Non mi serve nessun dottore… quel bastardo aveva la mano veloce, anche se la sua mira era pessima.» Solleva gli occhi verdi ad accarezzarla con lo sguardo per l’ultima volta: «Non piangere per me, dolcezza… tu sei l’unica che ha saputo mirare al cuore.»





venerdì 24 luglio 2015

Di rabbia e d'amore





D'amore e di rabbia
palpita il cuore:
l'amore lo acquieta
con dolci lusinghe,
la rabbia lo spreme
e irrora le arterie.

Di rabbia e d'amore
si nutre la mente:
la rabbia pungente
sferza i pensieri,
il languido amore
placa gli affanni.

Canto l'amore e vivo di rabbia.
Finché avrò respiro,
l'immane conflitto
degli strenui duellanti
renderà nobile
ciò che chiamano vita.

martedì 9 giugno 2015

Tre personaggi contro l'autore





«Venti cartelle entro una settimana. L’editore non è disposto ad aspettare oltre. Ti abbiamo dato carta bianca e non sappiamo ancora nulla del nuovo romanzo. Lo sai cosa rischi, vero?»
Manuel lo sa: risoluzione del contratto e penale piuttosto salata. Serra le dita intorno al cellulare.
«Sì, ho capito, Sarah.»
«Cristo, Manuel» incalza la donna. «Stiamo perdendo del tempo prezioso! Dobbiamo battere il ferro prima che si smorzi il successo della tua opera prima; fra pochi mesi nessuno ricorderà un giovane autore esordiente che ha scritto un romanzetto appena passabile, sfruttando il filone hard che va per la maggiore.»
«Ah, grazie tante, Sarah!»
«Adesso non fare l’offeso: non sei la rivelazione letteraria del secolo. Sei uno dei tanti, con uno stile discreto e una spiccata propensione a tessere trame morbose che intrigano il pubblico femminile. Nemmeno noi ci aspettavamo un simile consenso.»
«Però vi ho fatto guadagnare un bel po’…»
«Certo» lo interrompe stizzita, «ma ci hai guadagnato anche tu! Senza contare l’anticipo per il secondo libro, che dovrebbe già essere in stampa. Insomma» il tono della donna s’è addolcito, «ora mettiti tranquillo e cerca di buttare giù qualcosa. So quanto sia difficile, dopo un romanzo di successo, scriverne un altro dello stesso livello. Ti senti svuotato, ti sembra di non avere più nulla da dire. È normale, ti assicuro che non hai perso l’ispirazione: si tratta solo di ansia da prestazione artistica.»
«Credevo fossi la mia editor, Sarah, non la mia psicanalista» ironizza Manuel.
«Lo sono, stupido! Ma mi considero anche tua amica, e se sono un po’ rude, è solo per spronarti. Sono stata la prima a credere in te, non deludermi.»
«Non ti deluderò, tranquilla: ho una buona storia; concedimi ancora qualche giorno…» farfuglia, cercando di dare alla voce un tono convincente.
«E va bene» sospira la donna, «voglio fidarmi, ma non più di una settimana, intesi?»
Manuel saluta e riattacca. Ha la fronte imperlata di sudore: non ne può più delle strigliate della sua editor. Dannazione, venti cartelle in pochi giorni! Ha mentito spudoratamente: non ha nessuna storia, nemmeno mezza idea, niente di niente. Su una cosa Sarah ha visto giusto: gli sembra davvero di non avere più nulla da scrivere, si sente svuotato, spremuto come un limone, esaurito come una batteria scarica.
Fissa lo schermo del computer, aperto sul programma di scrittura; la pagina, desolatamente bianca, aumenta la sua inquietudine. Prova a digitare qualche carattere a caso, solo per non vedere più quel vuoto lattiginoso che rispecchia il deserto della mente. I segni neri, buttati là senza nessun legame strutturale, cominciano a muoversi e a rincorrersi sul monitor come formiche impazzite. Manuel sgrana gli occhi, e quelle “cose” continuano a dimenarsi sullo schermo retro-illuminato; sembra che mutino… sì, stanno crescendo! Adesso assomigliano a grossi scarafaggi neri con tanto di zampette e antenne tremolanti; stanno per tracimare dal rettangolo del foglio elettronico. Allunga la mano di scatto e abbassa il display del notebook fino a richiuderlo sulla tastiera. Il cuore gli batte forte e sente pulsare le tempie; trattenendo il respiro, solleva lo sportello. Gli insetti sono di nuovo degli innocui caratteri neri digitati a random. Li cancella e chiude il programma.
Rimane per qualche istante a fissare le icone del desktop temendo di vederle animarsi, ma non succede nulla. Respira di sollievo: è stanco e il cervello gli ha giocato un brutto scherzo. Farà una doccia, una bella dormita, e domattina si sveglierà rilassato e pieno d’idee. Spegne il p.c. e si alza dalla sedia.
Mentre percorre i pochi metri che separano lo studio dal bagno, rimugina sui personaggi del romanzo che domani comincerà a scrivere. Dovranno essere ancora più viziosi e perversi di quelli del primo libro. Se provasse con un sequel? Scarta subito l’ipotesi: non è possibile, a meno di non far resuscitare la protagonista, eliminata nel penultimo capitolo, massacrata dalla rivale a colpi di forbici.
Alcune macchie sul cotto delle piastrelle attirano la sua attenzione: sono scure, rotondeggianti, di un liquido denso… sembra sangue. Si china a detergerne una con le dita; strofina fra loro i polpastrelli, li annusa: la consistenza vischiosa, l’odore ferrigno… è proprio sangue! Solleva lo sguardo da terra e la vede, esattamente come l’ha descritta nella scena del libro. È di spalle e si sta guardando allo specchio; si gira verso di lui, lo fissa.
«Guarda come mi hai ridotto…» mormora con voce spezzata dalla sofferenza.
È nuda, con il trucco disfatto nel volto rigato di lacrime, il corpo sfigurato da orrende ferite che sanguinano copiose, profanando il candore della pelle. Nella carne martoriata spiccano gli squarci profondi sul seno, sul ventre, sulle cosce, e il fendente mortale alla gola. Gli occhi allucinati fiammeggiano di rabbia.
«Mi sono fidata di te, sono venuta a offrirti la mia storia e tu mi hai oltraggiato. Mi hai descritto come la peggiore delle sgualdrine e mi hai fatto crepare affogata nel mio sangue. Non era questo l’epilogo che volevo. Io ero soltanto una donna innamorata. Mi hai tradito, maledetto bastardo!»
Manuel non riesce a respirare dallo shock. La fissa per qualche istante con gli occhi sbarrati, poi la stanza comincia a girare e la mente si smarrisce; crolla svenuto sul pavimento.
Le lame di luce che filtrano dalla persiana gli feriscono gli occhi non appena socchiude le palpebre. Che ci fa sdraiato sul pavimento del bagno? Si sforza di riordinare le idee. Il ricordo di quanto è successo la sera precedente sferza la mente come una frustata; scatta in piedi, si guarda intorno circospetto, ispeziona le stanze dell’appartamento, controlla minuziosamente le mattonelle. Niente sangue… lei non c’è. Che idiota! Certo che non c’è, come potrebbe? Lei è soltanto nelle pagine del libro, e per giunta è morta, svanita per sempre con la parola “fine”. Dev’essere stato vittima di un malore che l’ha fatto scivolare a terra, per poi passare dallo stato d’incoscienza al sonno. Ha avuto un incubo spaventoso, tanto vivido da sembrare reale. Si sente a pezzi e ha un mal di testa feroce. Al diavolo! Non è in grado di mettersi a scrivere… una doccia calda, poi fuori a respirare l’aria fresca del mattino.
Al bar, la cameriera lo gratifica di un sorriso. È simpatica, decisamente bruttina ma, grazie a Dio, rassicurante nella sua anonima normalità.
«Buon giorno, Manuel. Il solito?»
«Sì, Anna, grazie» annuisce. Sorseggia il caffè sovrappensiero, assaporando il retrogusto amaro della miscela bollente.
«Immagino che sarai fiero di te stesso…»
La voce sarcastica lo fa sobbalzare; non si era accorto del giovanotto in piedi accanto a lui, tanto vicino da sfiorarlo. Lo guarda e il sangue gli si gela nelle vene.
«Lei era la mia vita…» continua il ragazzo, che sembra in procinto di scoppiare in lacrime. «Ci hai fatto conoscere, innamorare, perdere nel delirio dei sensi. Abbiamo ingannato, mentito, rinnegato i nostri principi e tradito le persone che avevano fiducia in noi, pur di stare insieme; e tu sempre lì, a manovrare le nostre azioni, a spiare i nostri turbamenti e godere morbosamente dei nostri amplessi. Ti eccitavi a vederci fare sesso senza ritegno; erano le tue fantasie malate che ispiravano le nostre perversioni. Maledetto, impotente frustrato!»
Gli occhi scuri sembrano volerlo incenerire; le labbra sensuali si arricciano, scoprendo i denti in un ghigno feroce. Manuel conosce quegli occhi e quelle labbra: li ha descritti nel romanzo, li ha creati lui!
La voce del giovane si affievolisce in un tono lamentoso: «Ero venuto da te pieno di speranze, mi fidavo di te; mi hai dato la cosa più bella della mia vita e me l’hai subito tolta. Perché mi hai fatto questo? Dovevo vendicarla, e non potevo continuare a vivere senza di lei. Tu lo sapevi: sei tu la causa di tutto…» stringe i pugni e ruota i polsi a mostrargli le vene tranciate, dalle quali scorre un rivolo di sangue semi rappreso.
La tazzina trema nella mano di Manuel; il caffè si rovescia sul ripiano del bancone, sgocciolando in una chiazza scura sul pavimento.
«Manuel, che succede?»
La voce allarmata di Anna lo strappa dalla nebbia che gli avviluppa la mente. La fissa attonito, incapace di far uscire alcun suono di bocca; deglutisce per stimolare la salivazione.
«Lo vedi anche tu?» mormora con un filo di voce.
«Chi? Di cosa stai parlando?»
«L’uomo che è qui, vicino a me: giovane, capelli scuri, occhi profondi…»
«Manuel, sei impazzito? Ci siamo solo tu ed io nel locale.»
Si volta lentamente, terrorizzato da quello che si aspetta di vedere; niente, non c’è nessuno.
«C’era un’altra persona fino a poco fa…» insiste, lottando contro la nausea.
La ragazza scuote la testa: «Ti ripeto che non c’era nessun altro. Stavamo chiacchierando. Tu bevevi il caffè, poi hai rovesciato la tazzina… Sei sicuro di sentirti bene?»
«Sì, cioè no…» balbetta confuso. «Scusami, adesso devo andare.»
Schizza fuori dimenticandosi di pagare la consumazione. Attraversa la strada senza rendersi conto dell’auto che lo schiva per un pelo; non sente nemmeno lo strombazzare del clacson e le imprecazioni del conducente. Percorre alcuni isolati in stato di trance; nel cervello rimbomba la voce del ragazzo, le sue pesanti accuse gravano come macigni sullo stomaco.
Quando i crampi diventano insopportabili, affretta il passo per raggiungere il parco pubblico; fa appena in tempo a piegarsi dietro un cespuglio e prorompe in violenti conati di vomito che gli squassano le viscere fino a lasciarlo stremato. In preda a un tremore convulso, con la vista annebbiata e un sudore appiccicaticcio che gli incolla gli abiti alla pelle, crolla su una panchina, privo di forze. Rimane lì rannicchiato, con i gomiti puntati sulle ginocchia e la testa stretta tra le mani; serra gli occhi, cercando di rallentare i battiti del cuore e attutire il dolore lancinante che gli tortura il cervello. Non osa quasi pensare, non è in grado di riflettere né tanto meno di razionalizzare: anche se esiste una spiegazione logica, in quel momento non è alla portata della sua mente prossima al delirio.
Le voci squillanti di alcuni bambini lo strappano a quella sorta di letargo. Allarga le dita che comprimono il volto e si sforza di aprire gli occhi; a fatica mette a fuoco le immagini: alberi, panchine, un vecchietto con il cagnolino al guinzaglio, alcune mamme che spettegolano tra loro mentre sorvegliano i movimenti dei figli. Una scena tranquilla, idilliaca, soprattutto normale. Se non fosse per gli schiamazzi di quei mocciosi che gli rimbombano nella testa fino a farla scoppiare…
«Mi sarebbe piaciuto avere dei bambini…» la voce è carica di struggimento. «Almeno un paio. Filava tutto liscio con mio marito: eravamo felici, innamorati…»
Manuel si volta con la lentezza delle immagini al rallentatore, fissa a bocca aperta la giovane donna che gli è seduta accanto. Non si era accorto della sua presenza, non sa da quanto tempo sia lì. È bionda e minuta, il profilo è delicato, il volto pallido, le labbra contratte in una smorfia di dolore, gli occhi abbassati. Sa che sono azzurri, anche se non può vederli. Lo sa perché li ha immaginati così: azzurri come fiordalisi, grandi, fiduciosi. Li ha descritti lui quegli occhi, li conosce meglio di chiunque altro.
La giovane si volta di scatto e glieli spalanca in faccia, facendolo sussultare al punto che quasi cade dalla panchina. È sconvolto ma non sorpreso: in fondo se lo aspettava. Lei non poteva mancare all’assurdo, diabolico appello. Lei, l’antagonista, l’ultimo lato del triangolo d’amore e morte, quell’enorme cumulo di cazzate che, Dio solo sa il perché, si è tanto esaltato a scrivere. Rassegnato all’inevitabile, ascolta ciò che la donna ha da dirgli.
«Non doveva finire così… è colpa tua…» gli occhi trasparenti brillano di follia. «Non sono un’assassina: ero andata da lei solo per parlare. L’ho supplicata di lasciarmi il mio uomo, non volevo ucciderla…» lacrime copiose cominciano a sgorgarle dalle ciglia. «Mi ha deriso, umiliato. Si è lasciata scivolare di dosso la vestaglia per sbattermi in faccia la sua bellezza, per dimostrarmi che non potevo competere con lei. Rideva, mi prendeva in giro. Ho immaginato le mani di mio marito su quel corpo perfetto, le sue labbra sulla bocca sfrontata, la sua voce che le sussurrava frasi appassionate. Lei continuava a ridere senza pietà. Non ho capito più nulla: mi girava la testa… mi sono appoggiata a un mobile per non cadere e me le sono trovate in mano…» abbassa gli occhi sul grembo a guardarsi le mani.
Manuel segue il suo sguardo e sussulta violentemente: le forbici sono lì, ancora aperte, lorde di sangue.
«Tu lo sapevi, ce le avevi messe tu, volevi che lo facessi!» gli grida in faccia. «Hai spezzato i miei sogni e mi hai trasformato in un’assassina. Ero folle di disperazione e sono corsa da lui. Speravo che capisse, che mi aiutasse, e invece…» si porta una mano al collo sottile, sul quale risaltano i segni violacei di una stretta mortale. «Non ci credevo, mi sentivo mancare il respiro, annebbiare la vista… mi dicevo che non era possibile: lui non poteva farmi questo, io lo amavo tanto…» scoppia in un irrefrenabile pianto disperato. «È solo colpa tua… ti odio!»
È troppo: Manuel si lascia sprofondare nella nebbia ovattata dell’incoscienza.
«Ehi, giovanotto, si sente male?»
Apre gli occhi con enorme fatica, mette a fuoco il volto di un anziano signore che lo scuote per una spalla. Riconosce il vecchietto con il cane. Le giovani mamme stanno ancora ciarlando, i ragazzini scorrazzano vivaci… il posto accanto è vuoto.
«Dov’è lei?» ansima.
«Lei chi? Di cosa sta parlando, giovanotto?»
«C’era una donna seduta qui con me, una ragazza giovane, carina… piangeva…»
L’uomo gli rivolge un’occhiata perplessa, scuote la testa: «Non c’era nessuna donna, ne sono sicuro. La stavo osservando da un po’: si teneva la testa fra le mani, tremava… poi si è afflosciato sulla panchina. Adesso come si sente? Ho la macchina, posso accompagnarla a casa.»
«No, non ce n’è bisogno» si schermisce Manuel, «ho solo avuto un capogiro, adesso va meglio, grazie» balbetta. Si alza dalla panchina e s’incammina, barcollante, verso casa.
Non si dà nemmeno la pena di controllare le stanze: sa che “loro” non ci sono, non ci possono essere. Sono nel romanzo e sono morti. È stato lui a decidere di eliminarli uno per volta, in una sequenza implacabile di eventi concatenati. Loro sono soltanto nella sua testa, una testa che sta dando i numeri. Deve placare gli spasimi dell’emicrania e cercare di riflettere; prende dal mobiletto dei medicinali un paio di pastiglie, le ingoia con un bicchiere d’acqua e si sdraia sul divano. Le persiane chiuse conferiscono alla stanza una rilassante oscurità crepuscolare; posa il capo sui cuscini, chiude gli occhi e cerca di riallacciare il filo dei pensieri.
Tutto è cominciato dopo la telefonata di Sarah… o forse quello è stato solo l’elemento scatenante. Da mesi, ormai, tira avanti al limite delle forze: il libro, il battage pubblicitario, l’interminabile serie d’interviste, gli incontri con i lettori, le apparizioni nei programmi radiofonici e televisivi. Si è gravato di un carico di fatica e stress superiore alla sua resistenza. È stanco, dimagrito, teso… e il secondo libro, che dovrebbe già fare bella mostra di sé nelle migliori librerie, non è nemmeno una bozza. Ci sono tutti i presupposti per sclerare. Salvo che non si tratti di qualcosa di patologico. Forse - rabbrividisce solo a pensarlo - i sintomi di un cancro al cervello. Ha letto da qualche parte che un tumore del lobo occipitale può causare allucinazioni e alterazione delle percezioni sensoriali; il mal di testa potrebbe essere provocato dall’estensione della massa tumorale, insieme alle convulsioni e alla nausea. Assurdamente, la possibilità di ricondurre a cause fisiologiche la serie di fenomeni inspiegabili dei quali è stato vittima nelle ultime ore, gli procura un senso di sollievo. Si sente quasi rincuorato all’idea di essere semplicemente, banalmente ammalato. Domani stesso andrà dal medico e farà gli accertamenti clinici necessari e se, come teme, si tratta invece di un esaurimento nervoso con i fiocchi, prenderà un lungo periodo di pausa per curarsi. La salute prima di tutto, non c’è contratto che tenga, e Sarah può andare a farsi fottere insieme all’editore!
Prima ancora di realizzare la cosa a livello razionale, l’istinto lo mette in guardia: sta per accadere di nuovo. I sensi non percepiscono nulla di anomalo, ma lo sa, lo sente, lo avverte nei pori della pelle che cominciano a essudare, nei peli del corpo che si drizzano tutti insieme, nei muscoli che s’illanguidiscono quasi fosse un pupazzo di pezza. Con uno sforzo sovrumano si solleva a sedere e apre gli occhi.
Loro sono lì, tutti e tre, in piedi in mezzo alla stanza. Non parlano e non si guardano l’un l’altro, ma lo fissano con occhi carichi d’odio. Manuel avverte uno schianto nella testa: il fuoco di un’ira rabbiosa, più forte del terrore, gli divampa nel cervello.
«Che volete da me, maledetti?»
«Vogliamo vendetta» il ragazzo è il primo a parlare.
«Non doveva finire così» incalza la protagonista.
«Devi pagare per il male che ci hai fatto» sentenzia l’altra.
Tutti e tre avanzano verso di lui con esasperante lentezza.
«Io ero l’unico ad avere il diritto di decidere il finale!» grida rabbioso. «Io vi ho creati, io sono l’arbitro delle vostre vite e anche della vostra morte!»
«Povero idiota…» lo schernisce il ragazzo, scuotendo la testa beffardo.
«Non capisci un cazzo!» sghignazza la protagonista.
«Siamo noi che siamo venuti da te» termina l’altra. «Non ci hai “inventati” tu, quindi non puoi eliminarci. Noi non possiamo morire.»
È tutto talmente grottesco che Manuel scoppia in una risata isterica; i tre si fermano e lo fissano interdetti.
«Guardatevi» li schernisce senza riuscire a smettere di ridere. «Guardate che cosa siete! Una troietta da quattro soldi, stupida, per giunta! Ti sei lasciata massacrare senza nemmeno cercare di difenderti. Un latin lover da strapazzo, vigliacco e senza palle. Ti sei tagliato le vene come una donnicciola. Una psicolabile sfigata e piagnucolosa. Povera illusa: speravi che lui capisse, invece ti ha tirato il collo come si fa con una gallina!»
I tre ricominciano ad avanzare, minacciosi, fino a incombere su di lui.
«Personaggi…» sibila con disprezzo sulle loro facce, «non siete che personaggi! Volevate tre vite tranquille, anonime, ridicolmente felici? E a chi sarebbe interessato? Nessuno avrebbe speso un centesimo per leggervi. Sono io che vi ho reso immortali! Io vi ho creato, il mio genio ha trasformato le vostre storie squallide in qualcosa che valesse la pena di essere raccontato. Non sareste nessuno senza di me: tre nullità, tre ombre senza forma, tre…»
Non riesce a terminare la frase: un lancinante dolore al petto gli spezza il respiro. Abbassa la testa a guardare, e un’espressione di stupore si allarga negli occhi, davanti ai quali cala repentina una coltre di tenebre. La lama delle forbici, chiuse e impugnate con la forza rabbiosa che solo la mano di una donna mortalmente offesa può trovare, gli ha trapassato le costole e spaccato in due il cuore.

Sarah digita il punto che mette fine al paragrafo e alla storia. Si sgranchisce le dita e stira la schiena. Sorride soddisfatta: ha scritto un bel feuilleton, ci ha messo dentro un po’ di tutto, romance, eros, noir, fantasy, un pizzico di thriller e parecchio horror. Non è un capolavoro, ma dovrebbe andare per l’angolo dedicato al “new weird” della rivista che gliel’ha commissionato. Ha già deciso anche il titolo: “Tre personaggi contro l’autore”, con un rocambolesco, quanto pretenzioso, riferimento letterario. Più tardi lo correggerà e lo manderà per posta elettronica; adesso ha bisogno di fare una doccia e mangiare qualcosa. Getta un’occhiata distratta allo schermo: le sembra che i caratteri siano animati da un impercettibile sfarfallio. Chiude gli occhi e se li strofina: è davvero stanca, comincia ad accusare qualche problema alla vista; dovrà abituarsi a usare gli occhiali, quando lavora al p.c. per parecchie ore consecutive. Si alza e s’incammina verso la stanza da bagno, pregustando il piacere dell’acqua calda che le sferza la pelle.
I caratteri neri si muovono nella pagina come formiche invasate; si moltiplicano, aumentano di volume, si trasformano in orrendi scarafaggi pelosi. Invadono lo schermo fino a fuoriuscirne, copiosi, inarrestabili; corrono sulla tastiera, sul ripiano e lungo le gambe del mobile. Si condensano sul pavimento in una chiazza brulicante, si sovrappongono a migliaia fino a creare un’orrenda struttura che prende forma e si sviluppa in altezza. La creatura assume sembianze umane; nel volto che si va delineando, gli occhi spiritati di Manuel brillano di una luce beffarda. L’uomo sorride sinistramente e s’incammina verso il bagno. Nella mano stringe un paio di forbici insanguinate.
«Sto arrivando, Sarah. Pensavi davvero d’esserti liberata di me, sciocca puttanella?»