«Tramontana
scura, acqua sicura».
Nel
bar del porto, l’unico avventore alza gli occhi dal giornale
sportivo; getta un’occhiata infastidita al tipo che è entrato
portando con sé una folata di vento gelido, ha pronunciato quella
frase ed è scoppiato subito dopo in un accesso di tosse.
-
È solo l’idiota di Giampiero, il barbone – pensa, e con
un’alzata di spalle torna a interessarsi alle prodezze della sua
squadra preferita.
«Giampi,
chiudi la porta che stamani fa un freddo cane!» inveisce Giorgio, il
gestore. «Sei venuto a scroccare la colazione come al solito?
Puntuale come le tasse e molesto come un tafano. Perché non provi a
cambiare zona, ogni tanto?» ride.
«Grazie
al Cielo, io non so nemmeno come sia fatta una cartella delle tasse»
replica Giampiero con un sorriso sdentato, «e questo è l’unico
locale aperto in tutta la darsena».
«Quindi
non sei qui per scelta, ma per necessità. E io, povero illuso, che
mi sentivo onorato della tua presenza…» ironizza l’altro, mentre
carica il filtro con la miscela tostata e lo avvita nella macchina.
«Vengo
a trovarti per il piacere della tua compagnia, e perché so che tieni
sempre un “caffè sospeso” per un povero senzatetto come me. Se
poi ti avanzasse qualche pastarella… vanno bene anche quelle di
ieri».
«Per
chi mi hai preso?» sbuffa Giorgio, fingendosi indignato. «Non
accadrà mai che uno dei miei clienti consumi qualcosa che non sia
freschissimo. Scegli quello che vuoi,» indica la vetrina dov’è
esposta la pasticceria, «è tutta roba di prima qualità».
«Fai
finta di essere burbero, ma in fondo sei un buon diavolo» sospira
Giampiero. «Il Cielo te ne renderà merito».
Giorgio
scuote la testa: «Starei fresco se aspettassi l’aiuto del Cielo.
Di questi tempi, se non ci rimbocchiamo le maniche e non ci diamo una
mano tra di noi…» appoggia sul bancone una tazzina fumante,
insieme a un vassoio con tre brioche. «Adesso mangia, che con questo
freddo ti servono un po’ di calorie. Sei pelle e ossa e hai una
tossaccia che non mi piace per nulla. Dovresti farti vedere da un
medico e coprirti di più. Mia moglie ti ha mandato un giaccone
smesso di nostro figlio; ti starà un po’ largo, ma è imbottito e
ha un cappuccio foderato di pelo. Se non ti offendi…»
«L’unica
cosa che mi offende è vedere piangere di dolore un bambino» replica
il barbone. «Ringrazia la tua signora, amico, e portale questi da
parte mia» tira fuori un involto di tela da sotto il pastrano logoro
e lo appoggia con delicatezza sul bancone.
Giorgio
ne solleva i lembi per scoprire cosa contenga, e una pungente
fragranza di sottobosco gli solletica le narici; sbarra gli occhi
dallo stupore alla vista dei cinque superbi funghi, turgidi e scuri,
adagiati in un letto di muschio e umidi di rugiada.
«Porcini
in questa stagione? Sono una meraviglia, dove li hai trovati?»
«Non
posso svelarti tutti i miei segreti» gli strizza un occhio, «diciamo
che ho degli amici, nel bosco, e loro mi danno qualche dritta…»
«Ah,
sì, certo: gli elfi» sorride Giorgio, «I tuoi amici magici, quelli
con la pelle verde e le orecchie a punta che vivono nel bosco. Sono
loro che ti hanno fatto trovare i funghi; come ho fatto a non
pensarci?»
«Zitto,
abbassa la voce…» Giampiero indica con un cenno della testa l’uomo
seduto a un tavolino, immerso nelle pagine rosa del quotidiano
sportivo. «Gli elfi non vogliono che si sappia della loro esistenza.
Il mondo non è ancora pronto a capire».
«D’accordo,
ma spiegami una cosa: come mai solo tu riesci a vederli? Sono stato
centinaia di volte nella macchia, in cerca di funghi e asparagi
selvatici, ma non ho trovato altro che buche scavate dai tassi e orme
di cinghiali, e mi sono imbattuto soltanto in lepri, daini e
scoiattoli. Di elfi o altre creature magiche, nemmeno l’ombra».
«Sono
sicuro che un giorno riuscirai a vederli anche tu perché hai l'anima
pura di un bambino. Quando ti libererai dai lacci della ragione e
smetterai di farti domande, le risposte verranno da sole. Vai nella
selva e lasciati pervadere dal tuo amore per la natura; aprile il
cuore, diventa un tutt'uno con essa. Devi respirare nel vento,
piangere nella pioggia, cinguettare con gli uccelli, guardare l’erba
che spunta… solo allora le divinità del bosco potranno
manifestarsi ai tuoi occhi. Ma devi credere alla loro esistenza.
Ricorda: bisogna avere fede per vedere l’invisibile.»
Giorgio
scuote la testa, sorridendo bonariamente. Ormai è abituato ai
vaneggiamenti di Giampiero, e spesso, se non ha troppo lavoro da
sbrigare, s’intrattiene a chiacchierare con lui e ascolta
volentieri le sue storie fantastiche.
Nessuno
sa chi sia Giampiero: è piovuto nel piccolo paese rivierasco un anno
fa, in una fredda giornata d’inverno come quella di oggi. Una
tramontana gelida spingeva i cirri minacciosi e gonfiava le onde del
mare, che muggiva come un toro ferito. L’uomo, avvolto in un
tabarro di tela cerata lungo fino ai piedi, una nuvola di capelli
candidi e barba incolta su una fitta ragnatela di rughe, è entrato
nel locale, portando con sé l’odore di pioggia e terra bagnata. Ha
sorriso con i pochi denti ingialliti, e gli occhi, azzurri come un
cielo d’aprile, hanno aperto una breccia nell’anima del gestore.
«Buon
giorno, brav’uomo» ha esclamato con la voce limpida di un bambino,
«vi avanza un caffè per il vecchio Giampiero?»
È
stato un comprendersi al primo sguardo, come ritrovare una persona
cara che si credeva perduta, un amico di quelli che puoi anche non
vedere né sentire per anni, ma che sono sempre lì, dentro il cuore.
Da quel giorno, non c’è una mattina che Giorgio non spii con ansia
la porta del bar e non tiri un sospiro di sollievo nello scorgere,
tra le facce dei clienti, quella rugosa e sorridente del vecchio. Ha
provato molte volte a offrirgli ospitalità, soprattutto nel periodo
più rigido dell’anno, ma l’altro ha sempre rifiutato; d’estate
dorme sulla spiaggia, e durante l’inverno trova riparo dentro un
vagone pieno di ruggine, abbandonato su un binario morto della
stazione ferroviaria. Accetta solo qualche caffè, un po’ di cibo,
coperte e abiti smessi, e ricambia la cortesia con piccoli doni:
funghi, more, lamponi, fragole selvatiche, pigne cariche di pinoli
che raccoglie nella macchia, cannolicchi e altri molluschi straccati
dal mare. È un uomo libero, Giampiero: la libertà rappresenta la
sua unica ricchezza, la sola cosa alla quale non rinuncerebbe mai.
«Grazie,
amico mio, adesso però devo andarmene».
«Dove
vuoi andare, con questo tempaccio?» protesta Giorgio. «Ha
cominciato a tuonare e tra poco verrà giù la fine del mondo. L’hai
detto anche tu poco fa: tramontana scura, acqua sicura. Rimani qui al
caldo e stasera vieni a casa con me. Mia moglie ne sarà felice».
«Non
posso, davvero, ma ti ringrazio di cuore. Lei mi sta aspettando…»
il vecchio ha abbassato il tono in un sussurro confidenziale.
«Diventa triste se non mi vede, ed io non voglio che sia triste per
colpa mia».
«Lei,
chi?» domanda Giorgio, perplesso.
«Shh,
parla piano, amico. Lei… te ne ho parlato più di una volta,
ricordi?»
«Vuoi
dire la bellissima fanciulla dalla pelle verde e i capelli d’argento
che vive nello stagno? Suvvia, Giampi, sii ragionevole: nessuno
sguazzerebbe nello stagno con un temporale in arrivo. Anche gli
animali cercano un riparo sicuro, quando le forze della natura si
scatenano…»
«Lei
non è un animale!» lo interrompe con veemenza. «Lei è la regina
del bosco, la signora dell’acqua e del vento. Non teme la natura
perché la domina e la governa. E adesso mi sta aspettando…»
Senza
aggiungere altro, butta giù l’ultimo sorso del suo caffè, saluta
con un cenno della mano e gira sui tacchi, raggiungendo la porta. Si
volta un attimo, lo fissa come se volesse imprimersi il suo volto
nella memoria, gli regala un sorriso e schizza fuori.
«Aspetta
un momento!» gli urla dietro Giorgio. «Non hai preso nemmeno il
giaccone. Ti bagnerai fino alle ossa…»
Inutile:
Giampiero si è già dileguato nel brontolio dei tuoni.
«Lascialo
stare, quello,» sbuffa l’altro cliente, girando una pagina del
giornale, «lo sanno tutti che è un povero pazzo visionario. E deve
essere anche malato: hai sentito che tosse? Uno di questi giorni,
sparirà così com’è apparso e non sentiremo più parlare di lui.
«Già,»
sospira Giorgio, scuotendo la testa, «mi sembra che stia sempre
peggio… ma è testardo come un mulo e non vuole saperne di farsi
curare. Temo che gli accada qualcosa di brutto…»
Il
suo interlocutore solleva le spalle con noncuranza. «Non sarà una
gran perdita… Ma parliamo di cose serie: hai visto la partita, ieri
sera?»
Ha
fretta Giampiero. Accelera i passi e il vento amico lo sospinge; gli
sembra quasi che i piedi non tocchino terra. È una sensazione
meravigliosa assecondare il respiro della tramontana: fluttua leggero
come un soffione di tarassaco. Il dolore è scomparso e si sente
bene, per la prima volta dopo tanto tempo. L’elisir di erbe e
rugiada che gli ha donato la signora del bosco, ha alleviato le sue
sofferenze fino ad annullarle del tutto. Se non fosse per la tosse
che lo lascia senza forze, e per il catarro sanguinolento che
espettora durante gli attacchi convulsi, crederebbe di essere
guarito. Sa che non è possibile, glielo ha detto lei, con la voce
melodiosa incrinata dal rammarico:
«Posso
far sì che tu non soffra, posso regalarti un po’ di quello che voi
umani chiamate “tempo”, ma non posso sottrarti al tuo destino».
Giampiero
è consapevole che non gli resta molto da vivere, anzi, è già
vissuto più di quanto avrebbe dovuto. Sa di essere condannato da
quando ha cominciato a sputare sangue vivo, e si è deciso a
rivolgersi all’ospedale di uno dei tanti paesi nei quali il suo
peregrinare l’ha condotto.
«La
lesione polmonare è estesa, si riscontrano danni ai bronchi e
metastasi diffuse» ha sentenziato il dottore, indicando una macchia
nella lastra radiografica. «Temo che la chirurgia sia inutile, ma
con un trattamento combinato di radio e chemioterapia, si può
sperare nel prolungamento delle aspettative di vita. Sei mesi, forse
un anno…»
Ne
sono passati due, di anni, e senza che si sia lasciato torturare dai
medici. Del resto, vivere per lui non era più importante, non dopo
aver perso tutto. Il figlio, morto nell’incidente automobilistico
causato da un colpo di sonno e dal quale lui, che ne è stato
responsabile, è uscito quasi indenne. La moglie, che non gli ha
perdonato la colpa e se n’è andata, dopo avergli vomitato addosso
il suo disprezzo. Il lavoro perduto, gli amici che ha allontanato…
non c’era più nulla per cui valesse la pena di stare al mondo. Ha
venduto la casa, ha depositato i soldi su un conto corrente intestato
alla moglie ed è saltato sul primo treno in partenza, senza nemmeno
sapere dove fosse diretto. Da quel giorno, ha vagato da un posto
all’altro, dormendo dove capitava e mangiando quando poteva. È
vissuto di espedienti, grazie alla generosità del prossimo, finché
le scarpe sfondate l’hanno portato in quel paese di mare. Un pugno
di casupole di pescatori incastonate fra dune selvagge, degradanti in
una spiaggia di sabbia bianca, e una pineta centenaria con un
sottobosco di lussureggianti arbusti sempreverdi.
-
Se esiste un Paradiso sulla Terra – ha pensato Giampiero quando ha
trovato quel luogo incantevole, – non può essere che questo. È
qui che voglio morire. – Ed è rimasto lì, a respirare con i sui
polmoni condannati l’aria salmastra e godere dei tramonti
infuocati. Ormai conosce i paesani uno a uno, e tutti, salvo poche
eccezioni, lo trattano con cordialità. Gente di mare, gente semplice
dal cuore grande, come i marinai che la sera rientrano al porticciolo
sui pescherecci e gli regalano una cassetta di pesce, o gli ambulanti
del mercato che tengono in serbo per lui un po’ di frutta e verdura
di stagione. E come Giorgio, il suo migliore amico, forse l’unico
amico vero che abbia mai avuto. Per Giampiero è come un figlio, e
gli assomiglia anche un po’ a quel figlio tanto amato, morto per
colpa sua. Ha gli stessi occhi limpidi e la stessa nobiltà d’animo.
Giorgio è il solo con il quale abbia parlato delle creature magiche.
Sa che l’uomo non crede all’esistenza degli elfi, ma un giorno
capirà, e quel giorno loro sapranno trovarlo.
Una
folgore squarcia la coltre di nubi; le fa seguito un boato
assordante. Le prime gocce di pioggia gli sferzano la faccia, insieme
agli spruzzi salati delle onde che s’infrangono con violenza contro
la barriera frangiflutti. Giampiero accelera il passo. Deve fare
presto: non gli resta molto tempo e lei lo sta aspettando. Spinto
dalla tramontana, percorre quasi di corsa la banchina del molo,
attraversa la rimessa delle barche e imbocca il sentiero che dalla
darsena conduce alla pineta. Le chiome dei pini secolari danzano nel
vento; intonano tutte insieme una sinfonia di suoni che fa da
contrappunto al rimbombo del temporale in arrivo. Il bosco piange,
ride, respira, esulta grato alla pioggia, geme scricchiolando alle
folate del vento, trema al fragore dei tuoni, rabbrividisce di
terrore allo schianto dei fulmini. Le sente quelle voci, le riconosce
una a una, e fra tutte, distingue quella di lei che lo chiama. - Che
strano – riflette - sono arrivato qua con la tramontana, in un
giorno identico a questo, e sarà la tramontana a portarsi via la mia
anima. –
Non
teme la morte, non ne ha paura: lei gli ha detto che non deve avere
paura.
«La
morte è solo il compimento di un ciclo» ha sussurrato, fissandolo
con gli occhi verdi come le foglie delle ninfee, «non devi temerla.
Rinascerai nella spuma delle onde, nella sabbia sottile delle dune,
nel profumo delle bacche di ginepro e nello stormire degli aghi di
pino. Sarai la terra, l’acqua, l’aria e il fuoco. Germoglierai
insieme ai fiori, piangerai nella rugiada, respirerai nella brezza e
arderai nel sole».
Quanta
consolazione gli regalano ogni volta quelle parole! Riescono perfino
a lenire il dolore per la morte del figlio, che ancora, dopo due
anni, gli strazia l’anima più di quanto le metastasi del cancro
non torturino il corpo. Giampiero non sa perché gli elfi abbiano
voluto manifestarsi proprio a un miserabile come lui, ma non si fa
domande. Ha smesso di farsi domande da molto tempo, da quando la sua
vita, e quella delle persone che amava, è andata in pezzi per la
scelleratezza di un attimo. Da allora, non ha desiderato altro che
pagare la sua colpa, e non ha neppure provato a cercare conforto in
quel Dio che si è dimenticato di lui. Non ha fatto che vagare senza
meta, inseguito dai suoi fantasmi, in cerca di un posto dove
lasciarsi morire. Il giorno che quel medico ha previsto con tanta
approssimazione, alla fine è arrivato. L’ha capito appena ha
aperto gli occhi e ha sentito il ringhio della tramontana scuotere le
lamiere del vagone ferroviario. Come ogni altra mattina, ha ripiegato
con cura la coperta sul pagliericcio improvvisato, ha indossato il
pastrano e gli scarponi ed è uscito. Dalla stazione, si è
incamminato verso il porto per dare un ultimo saluto al mare, poi si
è recato al bar. Giorgio non voleva lasciarlo andare, quasi sentisse
che non l’avrebbe più rivisto. Non gli ha detto nulla, ha
preferito salutarlo con un sorriso e andare incontro al suo destino
accompagnato soltanto dal vento.
Man
mano che avanza nel cuore del bosco, la vegetazione diventa più
fitta e il sentiero si assottiglia, fino a scomparire nel letto di
muschio e aghi di pino. Ormai nemmeno la luce riesce a filtrare
nell’intreccio intricato degli arbusti, ma Giampiero non ha bisogno
di vedere. Ha fatto quel percorso centinaia di volte, conosce ogni
pietra, ogni cespuglio, ogni filo d’erba. Ecco, è arrivato: scosta
con la mano una barriera di rampicanti che, dall’alto dei pini,
ricadono fino a terra, ed entra nel tempio.
Il
tempio: è così che l’ha chiamato, fin dalla prima volta che i
suoi occhi stupefatti hanno ammirato ciò che a nessun altro essere
umano era stato concesso di ammirare. Una sorta di cupola formata
dalle chiome degli alberi e delimitata dai tronchi ricoperti di
edera, irradiata da una luccicante luce verde. È rimasto abbagliato
da quella luce ed è crollato in ginocchio, timoroso, come se si
trovasse in un luogo sacro. Quando è riuscito di nuovo a focalizzare
le immagini, ha visto un piccolo stagno immerso in un prato fiorito.
Nello specchio d’acqua, tra un tripudio di ninfee bianche, decine
di creature fatate rendevano omaggio a una fanciulla bellissima,
seduta su una pietra coperta di muschio. La pelle di quelle creature
era di un verde pallido e luminescente, gli occhi dal taglio
allungato e le orecchie leggermente appuntite. Giampiero aveva visto
qualcosa di simile solo nei libri di fiabe che leggeva a suo figlio
quando era piccolo, ma non avrebbe mai immaginato che gli elfi del
bosco esistessero davvero, e che lui li avrebbe avuto il privilegio
d’incontrarli. Si è strofinato gli occhi, convinto di essere
vittima di un’allucinazione; quando li ha riaperti, ha incontrato
quelli della fanciulla e si è sentito, per un attimo, immensamente
felice.
Felice
com’è adesso, che lei lo sta di nuovo guardando e gli sorride.
«Sei
venuto… ti stavo aspettando» scuote la folta chioma argentea,
intrecciata con fiori di biancospino, e gli fa cenno di avvicinarsi
con la mano sottile.
Giampiero
entra nello stagno. Non sente freddo e non ha paura. Il vento gelido
e il brontolio dei tuoni hanno ceduto il posto a un tiepido refolo
primaverile e alla melodia di migliaia di uccelli. La regina del
bosco sorride, ed è un sorriso che riscalda l’anima. Con l’altra
mano, gli porge una ciotola scavata nella corteccia.
«Bevi.
Non sentirai più dolore e ti addormenterai. La terra ti sarà lieve
e dai tuoi umori germoglieranno i suoi frutti. Sarai un fiore nel
vento, una libellula dalle ali colorate, un gabbiano che stride
volando verso il sole».
Giampiero
beve, grato; chiude gli occhi e si addormenta sereno.