«Venti
cartelle entro una settimana. L’editore non è disposto ad
aspettare oltre. Ti abbiamo dato carta bianca e non sappiamo ancora
nulla del nuovo romanzo. Lo sai cosa rischi, vero?»
Manuel
lo sa: risoluzione del contratto e penale piuttosto salata. Serra le
dita intorno al cellulare.
«Sì,
ho capito, Sarah.»
«Cristo,
Manuel» incalza la donna. «Stiamo perdendo del tempo prezioso!
Dobbiamo battere il ferro prima che si smorzi il successo della tua
opera prima; fra pochi mesi nessuno ricorderà un giovane autore
esordiente che ha scritto un romanzetto appena passabile, sfruttando
il filone hard che va per la maggiore.»
«Ah,
grazie tante, Sarah!»
«Adesso
non fare l’offeso: non sei la rivelazione letteraria del secolo.
Sei uno dei tanti, con uno stile discreto e una spiccata propensione
a tessere trame morbose che intrigano il pubblico femminile. Nemmeno
noi ci aspettavamo un simile consenso.»
«Però
vi ho fatto guadagnare un bel po’…»
«Certo»
lo interrompe stizzita, «ma ci hai guadagnato anche tu! Senza
contare l’anticipo per il secondo libro, che dovrebbe già essere
in stampa. Insomma» il tono della donna s’è addolcito, «ora
mettiti tranquillo e cerca di buttare giù qualcosa. So quanto sia
difficile, dopo un romanzo di successo, scriverne un altro dello
stesso livello. Ti senti svuotato, ti sembra di non avere più nulla
da dire. È normale, ti assicuro che non hai perso l’ispirazione:
si tratta solo di ansia da prestazione artistica.»
«Credevo
fossi la mia editor, Sarah, non la mia psicanalista» ironizza
Manuel.
«Lo
sono, stupido! Ma mi considero anche tua amica, e se sono un po’
rude, è solo per spronarti. Sono stata la prima a credere in te, non
deludermi.»
«Non
ti deluderò, tranquilla: ho una buona storia; concedimi ancora
qualche giorno…» farfuglia, cercando di dare alla voce un tono
convincente.
«E
va bene» sospira la donna, «voglio fidarmi, ma non più di una
settimana, intesi?»
Manuel
saluta e riattacca. Ha la fronte imperlata di sudore: non ne può più
delle strigliate della sua editor. Dannazione, venti cartelle in
pochi giorni! Ha mentito spudoratamente: non ha nessuna storia,
nemmeno mezza idea, niente di niente. Su una cosa Sarah ha visto
giusto: gli sembra davvero di non avere più nulla da scrivere, si
sente svuotato, spremuto come un limone, esaurito come una batteria
scarica.
Fissa
lo schermo del computer, aperto sul programma di scrittura; la
pagina, desolatamente bianca, aumenta la sua inquietudine. Prova a
digitare qualche carattere a caso, solo per non vedere più quel
vuoto lattiginoso che rispecchia il deserto della mente. I segni
neri, buttati là senza nessun legame strutturale, cominciano a
muoversi e a rincorrersi sul monitor come formiche impazzite. Manuel
sgrana gli occhi, e quelle “cose” continuano a dimenarsi sullo
schermo retro-illuminato; sembra che mutino… sì, stanno crescendo!
Adesso assomigliano a grossi scarafaggi neri con tanto di zampette e
antenne tremolanti; stanno per tracimare dal rettangolo del foglio
elettronico. Allunga la mano di scatto e abbassa il display del
notebook fino a richiuderlo sulla tastiera. Il cuore gli batte forte
e sente pulsare le tempie; trattenendo il respiro, solleva lo
sportello. Gli insetti sono di nuovo degli innocui caratteri neri
digitati a random. Li cancella e chiude il programma.
Rimane
per qualche istante a fissare le icone del desktop temendo di vederle
animarsi, ma non succede nulla. Respira di sollievo: è stanco e il
cervello gli ha giocato un brutto scherzo. Farà una doccia, una
bella dormita, e domattina si sveglierà rilassato e pieno d’idee.
Spegne il p.c. e si alza dalla sedia.
Mentre
percorre i pochi metri che separano lo studio dal bagno, rimugina sui
personaggi del romanzo che domani comincerà a scrivere. Dovranno
essere ancora più viziosi e perversi di quelli del primo libro. Se
provasse con un sequel? Scarta subito l’ipotesi: non è possibile,
a meno di non far resuscitare la protagonista, eliminata nel
penultimo capitolo, massacrata dalla rivale a colpi di forbici.
Alcune
macchie sul cotto delle piastrelle attirano la sua attenzione: sono
scure, rotondeggianti, di un liquido denso… sembra sangue. Si china
a detergerne una con le dita; strofina fra loro i polpastrelli, li
annusa: la consistenza vischiosa, l’odore ferrigno… è proprio
sangue! Solleva lo sguardo da terra e la vede, esattamente come l’ha
descritta nella scena del libro. È di spalle e si sta guardando allo
specchio; si gira verso di lui, lo fissa.
«Guarda
come mi hai ridotto…» mormora con voce spezzata dalla sofferenza.
È
nuda, con il trucco disfatto nel volto rigato di lacrime, il corpo
sfigurato da orrende ferite che sanguinano copiose, profanando il
candore della pelle. Nella carne martoriata spiccano gli squarci
profondi sul seno, sul ventre, sulle cosce, e il fendente mortale
alla gola. Gli occhi allucinati fiammeggiano di rabbia.
«Mi
sono fidata di te, sono venuta a offrirti la mia storia e tu mi hai
oltraggiato. Mi hai descritto come la peggiore delle sgualdrine e mi
hai fatto crepare affogata nel mio sangue. Non era questo l’epilogo
che volevo. Io ero soltanto una donna innamorata. Mi hai tradito,
maledetto bastardo!»
Manuel
non riesce a respirare dallo shock. La fissa per qualche istante con
gli occhi sbarrati, poi la stanza comincia a girare e la mente si
smarrisce; crolla svenuto sul pavimento.
Le
lame di luce che filtrano dalla persiana gli feriscono gli occhi non
appena socchiude le palpebre. Che ci fa sdraiato sul pavimento del
bagno? Si sforza di riordinare le idee. Il ricordo di quanto è
successo la sera precedente sferza la mente come una frustata; scatta
in piedi, si guarda intorno circospetto, ispeziona le stanze
dell’appartamento, controlla minuziosamente le mattonelle. Niente
sangue… lei non c’è. Che idiota! Certo che non c’è, come
potrebbe? Lei è soltanto nelle pagine del libro, e per giunta è
morta, svanita per sempre con la parola “fine”. Dev’essere
stato vittima di un malore che l’ha fatto scivolare a terra, per
poi passare dallo stato d’incoscienza al sonno. Ha avuto un incubo
spaventoso, tanto vivido da sembrare reale. Si sente a pezzi e ha un
mal di testa feroce. Al diavolo! Non è in grado di mettersi a
scrivere… una doccia calda, poi fuori a respirare l’aria fresca
del mattino.
Al
bar, la cameriera lo gratifica di un sorriso. È simpatica,
decisamente bruttina ma, grazie a Dio, rassicurante nella sua anonima
normalità.
«Buon
giorno, Manuel. Il solito?»
«Sì,
Anna, grazie» annuisce. Sorseggia il caffè sovrappensiero,
assaporando il retrogusto amaro della miscela bollente.
«Immagino
che sarai fiero di te stesso…»
La
voce sarcastica lo fa sobbalzare; non si era accorto del giovanotto
in piedi accanto a lui, tanto vicino da sfiorarlo. Lo guarda e il
sangue gli si gela nelle vene.
«Lei
era la mia vita…» continua il ragazzo, che sembra in procinto di
scoppiare in lacrime. «Ci hai fatto conoscere, innamorare, perdere
nel delirio dei sensi. Abbiamo ingannato, mentito, rinnegato i nostri
principi e tradito le persone che avevano fiducia in noi, pur di
stare insieme; e tu sempre lì, a manovrare le nostre azioni, a
spiare i nostri turbamenti e godere morbosamente dei nostri amplessi.
Ti eccitavi a vederci fare sesso senza ritegno; erano le tue fantasie
malate che ispiravano le nostre perversioni. Maledetto, impotente
frustrato!»
Gli
occhi scuri sembrano volerlo incenerire; le labbra sensuali si
arricciano, scoprendo i denti in un ghigno feroce. Manuel conosce
quegli occhi e quelle labbra: li ha descritti nel romanzo, li ha
creati lui!
La
voce del giovane si affievolisce in un tono lamentoso: «Ero venuto
da te pieno di speranze, mi fidavo di te; mi hai dato la cosa più
bella della mia vita e me l’hai subito tolta. Perché mi hai fatto
questo? Dovevo vendicarla, e non potevo continuare a vivere senza di
lei. Tu lo sapevi: sei tu la causa di tutto…» stringe i pugni e
ruota i polsi a mostrargli le vene tranciate, dalle quali scorre un
rivolo di sangue semi rappreso.
La
tazzina trema nella mano di Manuel; il caffè si rovescia sul ripiano
del bancone, sgocciolando in una chiazza scura sul pavimento.
«Manuel,
che succede?»
La
voce allarmata di Anna lo strappa dalla nebbia che gli avviluppa la
mente. La fissa attonito, incapace di far uscire alcun suono di
bocca; deglutisce per stimolare la salivazione.
«Lo
vedi anche tu?» mormora con un filo di voce.
«Chi?
Di cosa stai parlando?»
«L’uomo
che è qui, vicino a me: giovane, capelli scuri, occhi profondi…»
«Manuel,
sei impazzito? Ci siamo solo tu ed io nel locale.»
Si
volta lentamente, terrorizzato da quello che si aspetta di vedere;
niente, non c’è nessuno.
«C’era
un’altra persona fino a poco fa…» insiste, lottando contro la
nausea.
La
ragazza scuote la testa: «Ti ripeto che non c’era nessun altro.
Stavamo chiacchierando. Tu bevevi il caffè, poi hai rovesciato la
tazzina… Sei sicuro di sentirti bene?»
«Sì,
cioè no…» balbetta confuso. «Scusami, adesso devo andare.»
Schizza
fuori dimenticandosi di pagare la consumazione. Attraversa la strada
senza rendersi conto dell’auto che lo schiva per un pelo; non sente
nemmeno lo strombazzare del clacson e le imprecazioni del conducente.
Percorre alcuni isolati in stato di trance; nel cervello rimbomba la
voce del ragazzo, le sue pesanti accuse gravano come macigni sullo
stomaco.
Quando
i crampi diventano insopportabili, affretta il passo per raggiungere
il parco pubblico; fa appena in tempo a piegarsi dietro un cespuglio
e prorompe in violenti conati di vomito che gli squassano le viscere
fino a lasciarlo stremato. In preda a un tremore convulso, con la
vista annebbiata e un sudore appiccicaticcio che gli incolla gli
abiti alla pelle, crolla su una panchina, privo di forze. Rimane lì
rannicchiato, con i gomiti puntati sulle ginocchia e la testa stretta
tra le mani; serra gli occhi, cercando di rallentare i battiti del
cuore e attutire il dolore lancinante che gli tortura il cervello.
Non osa quasi pensare, non è in grado di riflettere né tanto meno
di razionalizzare: anche se esiste una spiegazione logica, in quel
momento non è alla portata della sua mente prossima al delirio.
Le
voci squillanti di alcuni bambini lo strappano a quella sorta di
letargo. Allarga le dita che comprimono il volto e si sforza di
aprire gli occhi; a fatica mette a fuoco le immagini: alberi,
panchine, un vecchietto con il cagnolino al guinzaglio, alcune mamme
che spettegolano tra loro mentre sorvegliano i movimenti dei figli.
Una scena tranquilla, idilliaca, soprattutto normale. Se non fosse
per gli schiamazzi di quei mocciosi che gli rimbombano nella testa
fino a farla scoppiare…
«Mi
sarebbe piaciuto avere dei bambini…» la voce è carica di
struggimento. «Almeno un paio. Filava tutto liscio con mio marito:
eravamo felici, innamorati…»
Manuel
si volta con la lentezza delle immagini al rallentatore, fissa a
bocca aperta la giovane donna che gli è seduta accanto. Non si era
accorto della sua presenza, non sa da quanto tempo sia lì. È bionda
e minuta, il profilo è delicato, il volto pallido, le labbra
contratte in una smorfia di dolore, gli occhi abbassati. Sa che sono
azzurri, anche se non può vederli. Lo sa perché li ha immaginati
così: azzurri come fiordalisi, grandi, fiduciosi. Li ha descritti
lui quegli occhi, li conosce meglio di chiunque altro.
La
giovane si volta di scatto e glieli spalanca in faccia, facendolo
sussultare al punto che quasi cade dalla panchina. È sconvolto ma
non sorpreso: in fondo se lo aspettava. Lei non poteva mancare
all’assurdo, diabolico appello. Lei, l’antagonista, l’ultimo
lato del triangolo d’amore e morte, quell’enorme cumulo di
cazzate che, Dio solo sa il perché, si è tanto esaltato a scrivere.
Rassegnato all’inevitabile, ascolta ciò che la donna ha da dirgli.
«Non
doveva finire così… è colpa tua…» gli occhi trasparenti
brillano di follia. «Non sono un’assassina: ero andata da lei solo
per parlare. L’ho supplicata di lasciarmi il mio uomo, non volevo
ucciderla…» lacrime copiose cominciano a sgorgarle dalle ciglia.
«Mi ha deriso, umiliato. Si è lasciata scivolare di dosso la
vestaglia per sbattermi in faccia la sua bellezza, per dimostrarmi
che non potevo competere con lei. Rideva, mi prendeva in giro. Ho
immaginato le mani di mio marito su quel corpo perfetto, le sue
labbra sulla bocca sfrontata, la sua voce che le sussurrava frasi
appassionate. Lei continuava a ridere senza pietà. Non ho capito più
nulla: mi girava la testa… mi sono appoggiata a un mobile per non
cadere e me le sono trovate in mano…» abbassa gli occhi sul grembo
a guardarsi le mani.
Manuel
segue il suo sguardo e sussulta violentemente: le forbici sono lì,
ancora aperte, lorde di sangue.
«Tu
lo sapevi, ce le avevi messe tu, volevi che lo facessi!» gli grida
in faccia. «Hai spezzato i miei sogni e mi hai trasformato in
un’assassina. Ero folle di disperazione e sono corsa da lui.
Speravo che capisse, che mi aiutasse, e invece…» si porta una mano
al collo sottile, sul quale risaltano i segni violacei di una stretta
mortale. «Non ci credevo, mi sentivo mancare il respiro, annebbiare
la vista… mi dicevo che non era possibile: lui non poteva farmi
questo, io lo amavo tanto…» scoppia in un irrefrenabile pianto
disperato. «È solo colpa tua… ti odio!»
È
troppo: Manuel si lascia sprofondare nella nebbia ovattata
dell’incoscienza.
«Ehi,
giovanotto, si sente male?»
Apre
gli occhi con enorme fatica, mette a fuoco il volto di un anziano
signore che lo scuote per una spalla. Riconosce il vecchietto con il
cane. Le giovani mamme stanno ancora ciarlando, i ragazzini
scorrazzano vivaci… il posto accanto è vuoto.
«Dov’è
lei?» ansima.
«Lei
chi? Di cosa sta parlando, giovanotto?»
«C’era
una donna seduta qui con me, una ragazza giovane, carina…
piangeva…»
L’uomo
gli rivolge un’occhiata perplessa, scuote la testa: «Non c’era
nessuna donna, ne sono sicuro. La stavo osservando da un po’: si
teneva la testa fra le mani, tremava… poi si è afflosciato sulla
panchina. Adesso come si sente? Ho la macchina, posso accompagnarla a
casa.»
«No,
non ce n’è bisogno» si schermisce Manuel, «ho solo avuto un
capogiro, adesso va meglio, grazie» balbetta. Si alza dalla panchina
e s’incammina, barcollante, verso casa.
Non
si dà nemmeno la pena di controllare le stanze: sa che “loro”
non ci sono, non ci possono essere. Sono nel romanzo e sono morti. È
stato lui a decidere di eliminarli uno per volta, in una sequenza
implacabile di eventi concatenati. Loro sono soltanto nella sua
testa, una testa che sta dando i numeri. Deve placare gli spasimi
dell’emicrania e cercare di riflettere; prende dal mobiletto dei
medicinali un paio di pastiglie, le ingoia con un bicchiere d’acqua
e si sdraia sul divano. Le persiane chiuse conferiscono alla stanza
una rilassante oscurità crepuscolare; posa il capo sui cuscini,
chiude gli occhi e cerca di riallacciare il filo dei pensieri.
Tutto
è cominciato dopo la telefonata di Sarah… o forse quello è stato
solo l’elemento scatenante. Da mesi, ormai, tira avanti al limite
delle forze: il libro, il battage pubblicitario, l’interminabile
serie d’interviste, gli incontri con i lettori, le apparizioni nei
programmi radiofonici e televisivi. Si è gravato di un carico di
fatica e stress superiore alla sua resistenza. È stanco, dimagrito,
teso… e il secondo libro, che dovrebbe già fare bella mostra di sé
nelle migliori librerie, non è nemmeno una bozza. Ci sono tutti i
presupposti per sclerare. Salvo che non si tratti di qualcosa di
patologico. Forse - rabbrividisce solo a pensarlo - i sintomi di un
cancro al cervello. Ha letto da qualche parte che un tumore del lobo
occipitale può causare allucinazioni e alterazione delle percezioni
sensoriali; il mal di testa potrebbe essere provocato dall’estensione
della massa tumorale, insieme alle convulsioni e alla nausea.
Assurdamente, la possibilità di ricondurre a cause fisiologiche la
serie di fenomeni inspiegabili dei quali è stato vittima nelle
ultime ore, gli procura un senso di sollievo. Si sente quasi
rincuorato all’idea di essere semplicemente, banalmente ammalato.
Domani stesso andrà dal medico e farà gli accertamenti clinici
necessari e se, come teme, si tratta invece di un esaurimento nervoso
con i fiocchi, prenderà un lungo periodo di pausa per curarsi. La
salute prima di tutto, non c’è contratto che tenga, e Sarah può
andare a farsi fottere insieme all’editore!
Prima
ancora di realizzare la cosa a livello razionale, l’istinto lo
mette in guardia: sta per accadere di nuovo. I sensi non percepiscono
nulla di anomalo, ma lo sa, lo sente, lo avverte nei pori della pelle
che cominciano a essudare, nei peli del corpo che si drizzano tutti
insieme, nei muscoli che s’illanguidiscono quasi fosse un pupazzo
di pezza. Con uno sforzo sovrumano si solleva a sedere e apre gli
occhi.
Loro
sono lì, tutti e tre, in piedi in mezzo alla stanza. Non parlano e
non si guardano l’un l’altro, ma lo fissano con occhi carichi
d’odio. Manuel avverte uno schianto nella testa: il fuoco di un’ira
rabbiosa, più forte del terrore, gli divampa nel cervello.
«Che
volete da me, maledetti?»
«Vogliamo
vendetta» il ragazzo è il primo a parlare.
«Non
doveva finire così» incalza la protagonista.
«Devi
pagare per il male che ci hai fatto» sentenzia l’altra.
Tutti
e tre avanzano verso di lui con esasperante lentezza.
«Io
ero l’unico ad avere il diritto di decidere il finale!» grida
rabbioso. «Io vi ho creati, io sono l’arbitro delle vostre vite e
anche della vostra morte!»
«Povero
idiota…» lo schernisce il ragazzo, scuotendo la testa beffardo.
«Non
capisci un cazzo!» sghignazza la protagonista.
«Siamo
noi che siamo venuti da te» termina l’altra. «Non ci hai
“inventati” tu, quindi non puoi eliminarci. Noi non possiamo
morire.»
È
tutto talmente grottesco che Manuel scoppia in una risata isterica; i
tre si fermano e lo fissano interdetti.
«Guardatevi»
li schernisce senza riuscire a smettere di ridere. «Guardate che
cosa siete! Una troietta da quattro soldi, stupida, per giunta! Ti
sei lasciata massacrare senza nemmeno cercare di difenderti. Un latin
lover da strapazzo, vigliacco e senza palle. Ti sei tagliato le vene
come una donnicciola. Una psicolabile sfigata e piagnucolosa. Povera
illusa: speravi che lui capisse, invece ti ha tirato il collo come si
fa con una gallina!»
I
tre ricominciano ad avanzare, minacciosi, fino a incombere su di lui.
«Personaggi…»
sibila con disprezzo sulle loro facce, «non siete che personaggi!
Volevate tre vite tranquille, anonime, ridicolmente felici? E a chi
sarebbe interessato? Nessuno avrebbe speso un centesimo per leggervi.
Sono io che vi ho reso immortali! Io vi ho creato, il mio genio ha
trasformato le vostre storie squallide in qualcosa che valesse la
pena di essere raccontato. Non sareste nessuno senza di me: tre
nullità, tre ombre senza forma, tre…»
Non
riesce a terminare la frase: un lancinante dolore al petto gli spezza
il respiro. Abbassa la testa a guardare, e un’espressione di
stupore si allarga negli occhi, davanti ai quali cala repentina una
coltre di tenebre. La lama delle forbici, chiuse e impugnate con la
forza rabbiosa che solo la mano di una donna mortalmente offesa può
trovare, gli ha trapassato le costole e spaccato in due il cuore.
Sarah
digita il punto che mette fine al paragrafo e alla storia. Si
sgranchisce le dita e stira la schiena. Sorride soddisfatta: ha
scritto un bel feuilleton, ci ha messo dentro un po’ di tutto,
romance, eros, noir, fantasy, un pizzico di thriller e parecchio
horror. Non è un capolavoro, ma dovrebbe andare per l’angolo
dedicato al “new weird” della rivista che gliel’ha
commissionato. Ha già deciso anche il titolo: “Tre personaggi
contro l’autore”, con un rocambolesco, quanto pretenzioso,
riferimento letterario. Più tardi lo correggerà e lo manderà per
posta elettronica; adesso ha bisogno di fare una doccia e mangiare
qualcosa. Getta un’occhiata distratta allo schermo: le sembra che i
caratteri siano animati da un impercettibile sfarfallio. Chiude gli
occhi e se li strofina: è davvero stanca, comincia ad accusare
qualche problema alla vista; dovrà abituarsi a usare gli occhiali,
quando lavora al p.c. per parecchie ore consecutive. Si alza e
s’incammina verso la stanza da bagno, pregustando il piacere
dell’acqua calda che le sferza la pelle.
I
caratteri neri si muovono nella pagina come formiche invasate; si
moltiplicano, aumentano di volume, si trasformano in orrendi
scarafaggi pelosi. Invadono lo schermo fino a fuoriuscirne, copiosi,
inarrestabili; corrono sulla tastiera, sul ripiano e lungo le gambe
del mobile. Si condensano sul pavimento in una chiazza brulicante, si
sovrappongono a migliaia fino a creare un’orrenda struttura che
prende forma e si sviluppa in altezza. La creatura assume sembianze
umane; nel volto che si va delineando, gli occhi spiritati di Manuel
brillano di una luce beffarda. L’uomo sorride sinistramente e
s’incammina verso il bagno. Nella mano stringe un paio di forbici
insanguinate.
«Sto
arrivando, Sarah. Pensavi davvero d’esserti liberata di me, sciocca
puttanella?»