Il
sicomoro si erge nella radura, in un’ansa del fiume delle gazzelle.
Fabio,
seduto all’ombra con la schiena appoggiata al tronco, sorveglia i
bambini che si arrampicano sui rami più bassi e s’inerpicano
agili, per raccogliere i frutti maturi. Mentre i piccoli schiamazzano
gioiosi, l’uomo pensa con nostalgia alla sua Sicilia che non vede
da anni: il sapore dei fichi d’India, il profumo delle zagare, i
tramonti sul mare, infuocati come colate di lava dell’Etna.
Gira
lo sguardo a incrociare il sorriso di Patrizia e si sente pervadere
da una pace profonda. Patty è l’amore del suo cuore, l’amica
dell’anima, la compagna della vita, ed è stato così fin dal primo
istante che ha incontrato i grandi occhi nocciola nel viso dalla
pelle rosea come quella di una bambina, incorniciato da un tripudio
di capelli biondo miele. È bella Patty, con quei colori normanni e
la fierezza delle donne siciliane; il carattere indomito e la forza
con la quale si batte in difesa degli “ultimi del mondo”, si
coniugano con l’amabilità dei modi e la generosità del carattere.
Dolce come la pasta di mandorle e salda come l’ossidiana: Fabio non
ce l’avrebbe mai fatta, senza di lei, a sopravvivere tutti quei
lunghi anni nell’Africa sub-sahariana.
Appoggia
la nuca alla corteccia ruvida, chiude gli occhi e si lascia cullare
dai ricordi.
«Ho
deciso, Fabio: vado In Africa. Non cercare di dissuadermi, ti prego.
Il Sudan del Sud è una delle regioni più depresse del pianeta: i
bambini muoiono ancora di fame, per malattie che sono debellate nel
resto del mondo, per l’impiego in guerre tribali. Le femmine
crescono nell’analfabetismo e sono vendute come domestiche o
sfruttate come prostitute; molte donne sono vittime di stupri e
violenze di ogni genere e muoiono di parto, infezioni, lebbra,
malaria, aids… Tu sei un medico, hai il dono di salvare le vite:
tutto questo non dovrebbe lasciarti indifferente.»
Fabio
si era sentito mancare l’aria al pensiero di perderla; il loro
amore era giovane ma già importante: in pochi mesi la ragazza,
conosciuta grazie all’attività di volontariato presso la Croce
Rossa, era diventata il fulcro della sua esistenza. Non poteva
perderla, e soprattutto non poteva lasciarla andare in Africa da
sola. Aveva parlato d’impulso, senza riflettere, e mentre le parole
gli uscivano dalla bocca, aveva sentito che stava facendo la scelta
giusta, l’unica che gli avrebbe permesso di rimanere al fianco di
quella piccola donna immensa.
«Vengo
con te.»
Patty
era impallidita. «Non scherzare, Fabio. Non voglio che lasci la tua
famiglia, la professione, gli amici, per seguirmi. Non mi perdonerei
mai se ti accadesse qualcosa, e sarebbe terribile se un giorno
rimpiangessi ciò che hai abbandonato. Potrai proseguire il tuo
impegno anche restando in Sicilia, conoscerai un’altra ragazza,
vivrai la tua vita…»
«Non
voglio un’altra donna, Patty, e non voglio una vita dove non ci sia
tu. Imparerò ad amare l’Africa per amor tuo.»
Patrizia
aveva socchiuso le labbra per tentare una replica, ma Fabio si era
affrettato a sigillarle con le proprie, in un bacio che suggellava
una promessa. Com’era dolce la sua bocca, e morbida la pelle
profumata di zagare, e come brillavano i suoi occhi!
Le
grida dei piccoli dinka lo riscuotono dal torpore dei ricordi. Sono
scesi dall’albero e si affollano intorno a un giovane zebù,
cercando di farlo indietreggiare fino alla mandria dei bovini al
pascolo. I bambini della missione sono vestiti all’europea, con
pantaloni corti e magliette di tessuto leggero, per sopportare l’afa
del clima equatoriale. Di età compresa fra i tre, quattro anni, fino
all’adolescenza, i piccoli, dalla pelle nera come l’ebano,
rivelano la straordinaria bellezza della loro etnia: diventeranno
uomini e donne altissimi, slanciati e dal portamento fiero.
«Che
cosa stanno dicendo?»
Gli
occhi castano-dorati di Patrizia luccicavano di curiosità, mentre si
arrendeva all’assalto festoso dei bambini che si accalcavano
intorno a lei e cercavano di toccarla. Si era chinata a sollevarne
uno fra le braccia.
«Dicono
che sei la femmina dello zebù bianco, bella come Sirio, con la pelle
color del latte e la pioggia di luna nei capelli» aveva tradotto
sorridendo Don Carlo, il giovane sacerdote salesiano che era andato a
prenderli al disastrato aeroporto di Juba, per condurli alla missione
con un vecchio fuoristrada.
«Santo
Cielo, che fantasia!» la risata di Patty, argentina come uno
scroscio d’acqua, aveva fatto ammutolire i piccoli che la fissavano
adoranti. «Essere paragonata a un astro è lusinghiero, ma una
femmina di zebù…»
«È
un grande onore!» l’aveva contraddetta il prete. «I bovini hanno
un’importanza vitale per questa gente. Devi sentirti orgogliosa di
essere paragonata a uno zebù.»
«Oh,
beh, per fortuna non ho la sua gobba!»
La
battuta aveva strappato una risata ai due uomini, e tutti i bambini
si erano messi a ridere, anche se non capivano una parola.
È
sempre stata spiritosa, Patty: una donna eccezionale…
«Ricordi,
tesoro?» Fabio si rivolge alla giovane compagna. «Eravamo ricchi
soltanto di sogni, con i bagagli carichi di generi alimentari e
medicinali, i miei prontuari medici, i tuoi libri di poesie. Me le
recitavi la sera, seduti a contemplare il cielo del Sudd trapunto di
stelle. Ricordi la nostra festa di nozze? Indossavi l’abito che era
stato di tua madre; l’avevi portato con te a mia insaputa per farmi
una sorpresa: di pizzo candido, con una nuvola di tulle per velo, e
le donne del villaggio avevano raccolto per te le protee della
palude. È stato Don Carlo a unirci in matrimonio nella chiesetta
della missione, mentre suor Marta cantava L’ave Maria e suor Giulia
l’accompagnava con la chitarra. Abbiamo festeggiato tutta la notte,
mangiato focacce di cereali e bevuto latte tiepido di capra. Ricordi
com’erano suggestive le danze dei dinka? La pelle scura illuminata
dalla luna, le movenze sinuose, le braccia alzate a mimare le corna
delle mucche. Abbiamo ballato con loro finché, sfiniti, ci siamo
ritirati nel tukul e ci siamo amati fino all’alba, abbracciati sul
giaciglio di stuoie coperte da morbide pelli di vacca. In quel
momento ho sentito di appartenerti, e che entrambi appartenevamo a
questa gente e all’Africa.»
Patty
lo guarda con il suo tenero sorriso e sembra annuire in silenzio. Non
c’è mai stato bisogno di troppe parole tra loro: i loro cuori
hanno sempre battuto all’unisono.
«Ehi,
papà!»
Una
bimba si è staccata dal gruppo e trotterella verso di lui; si ferma
un attimo, sfiora il volto di Patty con un bacio, poi gli salta sulle
ginocchia e gli cinge il collo con le braccia.
«Stavi
dormendo?»
Fabio
le passa una mano tra la folta lanugine dei capelli. Gli occhi dalle
iridi scurissime lo fissano dal visetto paffuto. Hope è sveglia e
intelligente, con la grazia e la perfezione che esploderanno, fra
pochi anni, in una bellezza fuori dal comune. Sarà una donna nuova,
di un giovane paese che ha pagato, e sta ancora pagando, un prezzo
altissimo per la sua indipendenza. Un tributo estorto col sangue di
milioni d’innocenti, con la fame, la schiavitù, le deportazioni di
massa, la povertà estrema di una terra le cui immense risorse
continuano a essere sfruttate da chi non ne detiene i diritti. Non è
un politico, Fabio, ed è andato in Africa per aiutare, non per
giudicare, ma è stato testimone di troppe ingiustizie e atrocità,
ha dovuto curare centinaia di ferite e asciugare fiumi di lacrime; ha
visto villaggi distrutti, adolescenti imbracciare armi più grandi e
pesanti di loro e sparare ai loro simili, bambini sventrati nei campi
minati che erano obbligati a bonificare. Troppo sangue e troppe
lacrime. Sarebbe impazzito se non ci fosse stata Patrizia al suo
fianco: lei non aveva incertezze, non perdeva mai la speranza, era
forte come le rocce del deserto. Lo stringeva in silenzio e lasciava
che piangesse sul suo petto, con la testa appoggiata sul cuore,
finché il ritmo regolare dei battiti riusciva a calmarlo. Solo
allora gli asciugava le lacrime e lo baciava sulle labbra con
tenerezza, e sebbene spossati dalle lunghe giornate estenuanti,
facevano l’amore e si addormentavano abbracciati. Ogni nuova alba
si svegliava accanto a lei e rimaneva in silenzio a guardarla,
abbandonata nel sonno come una bambina, il corpo dalle curve morbide
e la pelle colorata d’ambra dal sole dell’Africa.
Sono
passati quasi dieci anni, e nemmeno una volta Fabio si è pentito
d’avere seguito Patrizia. Hanno profuso ogni loro energia per
aiutare i diseredati: alla missione, nei campi profughi, nei villaggi
devastati dalle rappresaglie, nei piccoli ospedali mal attrezzati.
Sono stati testimoni di orrori ed efferatezze di ogni genere, hanno
sofferto la fame e la sete insieme a coloro che considerano fratelli,
corso rischi che mettevano a repentaglio la loro stessa vita. Sempre
insieme: due corpi e una sola anima che si espandeva fino a fondersi
con l’immensa anima dell’Africa. Adesso, però, Fabio si sente
stanco, e soltanto il dolce sorriso di Patty riesce a rincuorarlo.
Il
tocco leggero delle dita sulla fronte lo strappa alle sue
riflessioni; Hope lo fissa, preoccupata:
«Non
essere triste, papà: la mamma non vuole che tu sia triste.»
L’uomo
inghiotte a fatica le lacrime e la stringe al petto. Fra i tanti
orfani della missione, Hope è la figlia del cuore, sua e di Patty,
quella che non sono riusciti a regalarsi con il loro amore, ma non
per questo meno adorata. Le immagini della notte di otto anni prima
sono impresse a fuoco nella sua memoria.
Al
termine del periodo delle piogge, i dinka si erano trasferiti con le
mandrie nei pascoli vicini ai corsi d’acqua. Era la stagione più
bella dell’anno per le comunità che si ritrovavano negli
insediamenti stabili, e coincideva con la celebrazione di matrimoni e
altri rituali collettivi.
Le
grida che avevano spezzato il sonno della missione non assomigliavano
ai canti dei pastori e agli schiamazzi gioiosi dei bambini. Fabio,
don Carlo e tutti gli altri, svegliati di soprassalto, erano corsi
fuori, appena in tempo per sentire le ultime parole del vecchio
coperto di fango e sangue, gli occhi sbarrati dal terrore.
«Villaggio,
guerrieri, bastoni di fuoco…»
Non
avevano compreso tutto, ma il senso era drammaticamente chiaro: uno
dei villaggi era stato assalito.
La
notte si stava tingendo delle prime luci dell’alba; Fabio e Carlo
non avevano indugiato: uno con la borsa dei ferri chirurgici e dei
medicinali, l’altro con la stola e il messale, entrambi con la
speranza di portare soccorso e conforto ai corpi e alle anime.
Patrizia non aveva voluto saperne di rimanere al sicuro alla missione
ed era saltata sul sedile posteriore della jeep, dopo aver caricato
una tanica d’acqua, bende e indumenti puliti. Avevano impiegato più
di due ore per raggiungere il villaggio; in jeep lungo la pista
sconnessa, e l’ultimo tratto a piedi attraverso l’intrico della
vegetazione, carichi di bagagli ed esausti, sostenuti dalla speranza
di trovare qualche superstite. A tratti, il vento della savana feriva
le narici con l’odore acre di bruciato, raccapricciante scia di
morte a guidare i loro passi.
Giunti nella radura, lo scenario si era
presentato più sconvolgente di quanto avessero immaginato: i tukul
abbattuti, il pozzo insabbiato e riempito di pietre, i granai dati
alle fiamme; cadaveri smembrati e bruciati tra i quali si aggiravano,
muggendo di terrore, i pochi zebù sfuggiti alla razzia. Don Carlo
era corso in direzione dei resti fumanti del pacifico villaggio di
pastori e contadini. Fabio, sotto shock, si era appoggiato al tronco
di un’acacia. La testa gli girava vorticosamente e sarebbe
scivolato a terra, se le braccia di Patrizia non l’avessero
sorretto. «Coraggio» aveva sussurrato la donna, «andiamo…»
Aggrappati
l’uno all’altra, barcollanti, avevano raggiunto Carlo che,
inginocchiato tra i cadaveri dei dinka, pregava per le loro anime.
Ciò che era scampato alla furia degli aggressori non era stato
risparmiato dal fuoco, e l’odore del sangue si mischiava a quello
dei corpi arsi e della legna carbonizzata. Con la forza della
disperazione, Patty e Fabio avevano ispezionato ogni angolo del
villaggio, ma la speranza che ci fosse qualche sopravvissuto si era
rivelata vana: solo alcune decine di vecchi barbaramente trucidati e
pochi uomini più giovani, caduti nel tentativo di difendere le
famiglie e il bestiame. I bastoni e le lance non erano valsi a nulla
contro i kalashnikov.
«Dove
sono gli altri?» aveva chiesto Patty «I giovani, le donne, i
bambini…»
«Alcuni
saranno fuggiti nella foresta, molti sono stati catturati per essere
venduti come schiavi.»
Gli
occhi di Patrizia si erano riempiti di lacrime.
«Mio
Dio… è atroce…» era crollata in ginocchio e singhiozzava.
«Non
possiamo fare nulla per questi poveretti» la voce di Carlo sembrava
provenire da una distanza remota. «Preghiamo, affinché Dio li
accolga nella sua misericordia».
«La
misericordia di Dio?» si era ribellato Fabio con veemenza. «Quale
Dio può permettere che accada questo?»
Patty
gli aveva tappato la bocca con una mano.
«Non
bestemmiare! Non siamo in grado di comprendere il disegno divino, ma
dobbiamo confidare nel Signore e rimetterci alla sua volontà.»
Stava
per replicare che non intuiva nessun piano divino in quel barbaro
massacro, quando un gemito, simile al verso di un animale ferito,
aveva attirato la loro attenzione. Nei cespugli che delimitavano il
villaggio, avevano trovato una donna riversa a terra, gli abiti
bruciati e intrisi di sangue. Con cautela l’avevano voltata e Fabio
si era chinato a esaminare le ferite; il volto, le braccia e le gambe
erano devastati da ustioni profonde. Patrizia le aveva passato una
mano sotto la nuca per sollevarle il capo e farle bere un po’
d’acqua dalla borraccia. La donna le aveva fatto cenno di
avvicinarsi per sussurrarle qualcosa all’orecchio, poi era spirata.
«Cosa
ti ha detto?» aveva chiesto Carlo mentre le abbassava le palpebre e
si faceva il Segno della Croce.
«Il
bambino… salvate il mio bambino…»
«Chissà
che fine ha fatto il bambino…» Fabio scuoteva la testa «non
riusciremo mai a ritrovarlo.»
«No!
Il bambino deve ancora nascere: non vedi che è incinta? Devi
operarla prima che muoia anche il piccolo!»
Praticare
un cesareo in piena savana, e in quelle condizioni, era una follia,
ma sarebbe stato un delitto non tentare. Per la madre non c’erano
speranze, ma si poteva salvare il bambino. Patty aveva ragione: la
donna era in avanzato stato di gravidanza e forse il piccolo era
ancora vivo. Fabio aveva posato una mano sul ventre prominente e un
impercettibile movimento aveva trasformato le speranze in certezza:
nel grembo della sventurata si agitava una vita pronta a vedere la
luce. Pochi minuti dopo, tagliava il cordone ombelicale e posava la
bambina, che strillava a pieni polmoni, tra le braccia di Patrizia.
Gli occhi di sua moglie si erano inondati di lacrime.
«Com’è
bella! È sana e robusta. Hai visto, Fabio? Anche nei momenti più
disperati può rinascere la speranza: non credi che questo faccia
parte di un disegno divino?»
«Hai
ragione…» aveva annuito, commosso.
«Speranza…
che ne dite di chiamarla Hope?» era intervenuto il sacerdote. «Una
speranza di pace per lei e la sua gente.»
Fabio
accarezza Hope e pensa a tutto l’amore che le ha dato Patrizia. Fin
dal primo istante che l’ha stretta al petto l’ha considerata sua
figlia, l’ha allevata, curata ed educata. Patty riteneva che
l’istruzione fosse fondamentale per quei bambini: dopo aver
soddisfatto le necessità fisiologiche, bisognava sfamare e dissetare
anche l’anima, e trascorreva molte ore nella scuola della missione
a insegnare a leggere e scrivere. Hope e gli altri bambini avrebbero
avuto un futuro migliore, in un paese di prosperità e pace.
“Pace”
era la sua parola preferita. La pronunciava spesso… Anche quel
giorno…
La
giornata era più afosa del solito, la jeep arrancava sulla pista
danneggiata dalle mine. L’epidemia di morbillo che aveva colpito i
villaggi delle paludi costringeva Fabio a spostamenti quotidiani per
inoculare i vaccini. Era una domenica di luglio, Don Carlo aveva
celebrato la Messa nella chiesetta della missione e i bambini
giocavano spensierati, sorvegliati dalle suore. Le truppe ribelli
avevano ripiegato a nord già da diverse settimane, e Fabio aveva
acconsentito che Patty andasse con lui. Cantava Patrizia, con la sua
voce fresca.
Un
piccolo drappello di ragazzi, tre in tutto, era sbucato dai cespugli,
costringendo il veicolo a una brusca frenata. Vestiti con divise
logore e armati di kalashnikov, probabilmente quei bambini, fuggiti
dall’esercito di liberazione, erano solo affamati e spaventati.
Sarebbe stato sufficiente dare loro un po’ di cibo, le borracce
dell’acqua e qualche sterlina sudanese. Non aveva nemmeno fatto in
tempo a suggerirle la prudenza, che Patrizia era già saltata dalla
jeep e avanzava verso di loro, le braccia alzate con i palmi delle
mani aperte, sorridente.
«Pace…»
continuava a ripetere, «pace.»
Il
bambino più piccolo si era fermato a guardarla come ipnotizzato, poi
aveva lasciato cadere il fucile e le era corso incontro per
rifugiarsi tra le sue braccia. Gli altri avevano cercato di
richiamarlo indietro, a uno dei due era partito un colpo. Erano
fuggiti prima che Fabio riuscisse a comprendere cosa stesse
accadendo. Patrizia si era accasciata al suolo, ancora stretta al
piccolo che aveva protetto con il suo corpo; sull’arida terra
marrone si allargavano dei fiori rossi: il suo sangue.
«Pace…»
aveva sussurrato, mentre Fabio si chinava su di lei sconvolto dalla
disperazione.
Era
stata la sua ultima parola.
Fabio
guarda Patrizia che sorride dalla foto posta sulla lapide della tomba
bianca, nel cimitero cristiano all’ombra del sicomoro. Patty ha
donato la vita per quella terra, per la gente che amava, per la sua
Africa. È morta in nome della pace e gli ha lasciato l’eredità di
proseguire la sua missione; non può deluderla: non abbandonerà mai
l’Africa.
Sorride
a sua volta all’immagine della donna che amerà per sempre.
Nessun commento:
Posta un commento
Grazie per il tuo commento: verrà pubblicato non appena lo avrò visionato.