«Ciao,
che cosa desideri?»
Mi
guardo intorno, perplessa: un tipo tatuato, con i bermuda che lasciano scoperte
le gambe bianchicce e pelose, sorseggia il suo caffè; due ragazze dall’accento
partenopeo smanettano su un telefonino di ultima generazione, del quale vantano
le meraviglie con esagerato entusiasmo. Non c’è nessun altro, nel locale. Nella
mia testa confusa si fa largo, prepotente, la consapevolezza che il giovanotto
stia parlando proprio con me: sorride, e mi ha dato del tu! Non sono più
avvezza da tempo immemorabile a un simile trattamento familiare da parte di
persone –maschi- più giovani di almeno una generazione. Lo guardo: è abbastanza
raro che l’avvenenza maschile mi susciti turbamenti, mi sento più attratta da
certi particolari, non so, una voce roca, un sorriso misterioso, mani curate e
affusolate, soprattutto l’eloquenza che denota un cervello fertile d’idee, ma
costui è bello davvero! Mi fissa sorridendo, in attesa dell’ordinazione, e non mostra
la frettolosa impazienza di chi si confronta ogni giorno con una clientela dai
modi spesso inurbani. Chiedo mentalmente un time out, e il tempo si ferma per
un istante, sul fotogramma del sorriso aperto di quegli occhi trasparenti.
Cerco di riacciuffare i pensieri prima che partano per la tangente: li rimetto
in fila come soldatini ubbidienti -cavolo, non ho quindici anni!- e rifletto
sulle sottili trame del Caso…
Non
avevo voglia di uscire, stasera, ma passare la serata e mezza nottata al computer,
senza sigarette, è una tortura alla quale non oso pensare di potermi sottoporre.
Mi sono detta: d’accordo, esco a comprarle e ne approfitto per portare un po’
di roba alla lavanderia automatica. La lavatrice ventennale s’è definitivamente
“svampata” e sto aspettando la sospirata quattordicesima per comprarne
un’altra; nel frattempo mi arrangio con la tecnologia a gettoni: un carico da
sei chili per quattro euro, nemmeno troppo, tutto sommato. Mi sono vestita con
abiti leggeri –fa caldo, anche se l’estate è in ritardo- pantaloni comodi,
infilati dentro stivaletti bassi, un camicione oversize, abbastanza lungo da
camuffare almeno in parte i chili di troppo, acquisiti negli ultimi mesi
d’indolenza cronica e vorace fame nervosa. Un velo di fondotinta a imitare la
sospirata abbronzatura e gli immancabili occhialoni scuri –da vista, perché
sono miope come una talpa- per nascondere le occhiaie profonde, che m’illudo
siano provocate dalle notti insonni al pc. I capelli corti e bruni non mi
stanno malaccio, ma il viso è un po’ troppo pieno e le rughe d’espressione
intorno agli occhi sono diventate delle vere e proprie zampe di gallina… Basta,
non mi piace indugiare sull’immagine che rimanda lo specchio: non mi soddisfa.
Preferisco cullare il ricordo della Rita di qualche anno fa –non molti- asciutta,
tonica, palestrata –bella no, non lo sono mai stata-. Dovrei mettermi a dieta,
potrei tornare in palestra, vorrei curare un po’ di più la forma fisica…
dovrei, potrei, vorrei: tre condizionali che ballano una taranta invasata nel
calderone dei buoni propositi, e non si decidono a trasformarsi in altrettanti
indicativi. Al diavolo! Mi accontento di coniugarli al futuro e rintuzzo i
sensi di colpa nei recessi del cervello: si faranno un pokerino con i due
neuroni che mi sono rimasti. Controllo che nella borsa ci siano le cose
irrinunciabili –chiavi di casa, chiavi della macchina, cellulare, accendino- ne
scarto altre duecento che non mi servono, ma mi sarebbero state utili in altri
momenti in cui non le trovavo nemmeno a sacramentare tutti i santi del paradiso,
ed esco. In lavanderia non c’è nessuno, meno male: odio aspettare per qualcosa
che non sia indispensabile. Posso tollerare l’attesa nella sala d’aspetto del
medico, alle poste, in banca, ma non credo di aver mai fatto la coda per
prendere una pizza o entrare in una sala cinematografica: piuttosto ci
rinuncio. Carico la macchina, introduco il gettone, seleziono il programma;
mezz’ora per l’intero ciclo di lavaggio, un’inezia che può diventare un’eternità,
se ti siedi a fissare il girare vorticoso del cestello. Adesso il bisogno di
una sigaretta è proprio impellente; il tabacchino è all’altro lato della
strada, il bel viale alberato che collega il mare al lago, attraversando tutto
il paese e la pineta. Adoro questo borgo, sonnolento d’inverno e frenetico
nella bella stagione; non ci sono nata, ma l’ho eletto mia dimora per gli anni
della maturità e, spero, della vecchiaia. Accendo che ho ancora un piede dentro
al negozio, aspiro con voluttà, come se fossero passati anni e non poche manciate
di minuti, dall’ultima volta che l’ho fatto. Adesso ci vuole un caffè; ci vuole
sempre un caffè, dopo una sigaretta, e un’altra sigaretta dopo l’ennesimo
caffè, e così via, in un interminabile alternarsi di nicotina e caffeina, che
poi fanno tanto pendant con endorfina e adrenalina… Ma questa è un’altra
storia: della mia irrazionale quanto lucida inclinazione all’autolesionismo
parlerò un’altra volta. Dicevo che mi va un caffè, o meglio, un cappuccino con
brioche, giacché comincio a sentire un certo appetito. So che è quasi ora di
cena e non ha senso uno spuntino, adesso; potrei resistere, se volessi, ma se
c’è una cosa che proprio non mi riesce, è resistere alle tentazioni –ormai solo
della gola- e così faccio il mio ingresso, tutt’altro che trionfale, nello
Sport Cafè.
«Ciao,
che cosa desideri?»
Il
fermo immagine del magnifico esemplare di giovane maschio si rianima; sbatto le
ciglia per riconnettere le sinapsi in sciopero perenne: lo so che aspirano
all’agognata pensione, ma facciano il loro dovere, ogni tanto! Grazie al cielo
le lenti scure fanno da scudo all’azzurro bagliore del sorriso killer, oltre a
nascondere le occhiaie –cosa che, adesso, mi sembra ottima-.
«Un
cappuccino tiepido e un pezzo dolce… quello: la sfogliatina di mele…» farfuglio,
con uno stridulo squittio da topolino preso in trappola –ma è proprio la mia
voce?-
«Ottima
scelta!» esclama, continuando a sferrare sguardi assassini «anch’io adoro i
dolci con le mele.»
Ne
prendo atto: non mi sarei mai aspettata che preferisse le prugne o i fichi
secchi. La sua –mi dico- è solo naturale cortesia verso un potenziale, nuovo
cliente. Fidelizzazione: cerco di applicarla anch’io, al lavoro, quando non
sono troppo fuori fase per riuscire a tollerare il resto del mondo.
«Quanto
Le devo?» calco volutamente sul “lei”, cosa inconsueta, per me che di solito do
del tu a tutti.
«Sarebbero
due euro e venti… facciamo due.»
«Prego?»
«Sì,
vanno bene due euro: ti faccio lo sconto.»
Adesso
sono in confusione totale: lo sconto, al bar, non me lo avevano mai fatto,
giuro, mai in tutta la vita! Che mi abbia scambiato per una vecchietta
indigente? Una povera pensionata al minimo? Sembro così male in arnese? Non oso
replicare che li ho, i venti centesimi; prendo due euro dal portamonete a forma
di gatto e glieli porgo.
«Carino»
fa lui, affondando senza pietà la lama del sorriso «anche a me piacciono i gatti.
Ecco, tieni…» mi porge la pastarella direttamente con le mani, e
l’impercettibile brivido che percorre i miei polpastrelli, sfiorati dai suoi,
m’induce a sorvolare sul peccato veniale di non aver usato la pinza, «il
cappuccino hai detto tiepido, vero?»
Annuisco
con un cenno della testa, incapace di proferir verbo, e mi concentro disperatamente
sul senso del suo anacoluto, ripassando tutte le figure retoriche che riesco a
ricordare, giusto per far lavorare un po’ i due neuroni già citati. Adesso ci
si mettono anche i tre ormoni superstiti, a far bagarre! Bene: tutti insieme
possono giocarsi un bel torneo di briscola! Mi dico che non sono farfalle,
quelle che sento svolazzare nello stomaco –chi se le ricorda, le farfalle?- E’
fame, soltanto fame, quella dannata fame insaziabile che mi farebbe divorare i
gambi delle sedie, quando sbircio speranzosa nella landa desertica del
frigorifero, che tengo vuoto di proposito per non auto indurmi in tentazione. Zittisco
i subdoli lepidotteri, pascendoli con la sfoglia ripiena di mele; è sicuramente
sublime, e di norma mi verrebbero le lacrime agli occhi, per la gratitudine
del palato e di tutte le papille gustative, ma adesso quasi non ne sento il
sapore. Consumo in fretta il mio spuntino, mandando giù i bocconi con sorsate
di cappuccino; mi sforzo di non guardare il barman, dedito ad altri clienti. Pulisco
la bocca con la salvietta di carta, mormoro un “grazie, arrivederci”, giro sui
tacchi e mi dirigo verso la porta, sicura che la mia uscita non lascerà nessun
vuoto incolmabile. Una stilettata a tradimento in mezzo alle scapole mi farebbe
boccheggiare di meno:
«Ciao,
buona serata, a presto!»
«Buona
serata anche a Lei…» rantolo, senza voltarmi a guardarlo un’ultima volta.
Guadagno
il marciapiede, con l’eroica soddisfazione di chi ha appena scalato una vetta
impervia, e respiro di sollievo. Eh no, carino, non mi freghi! Io lo so fin
troppo bene che la tua era solo gentilezza, probabilmente connaturata al tuo
carattere, di sicuro usata ad arte per farti una clientela. Lo so, io! Ma faglielo
capire, a quegli sfaccendati compagni di merende che stanno smazzando le carte,
nello spazioso salotto della mia testa vuota. Col piffero che ci torno, nel tuo
bar, caro mio! È stato bello, anche se effimero, ma col fuoco, io, non amo
scherzare: ho un terrore atavico del fuoco, e sarebbe un inutile accanimento
terapeutico per i miei poveri ormoni, ai quali da tempo ho concesso una lenta,
dolce eutanasia. Suvvia, lasciamoli in pace a godersi la loro innocua partitella,
che' magari barano un po’, ma non fanno male a nessuno.
To be continued...