Fra i nembi minacciosi, ammicca
una turpe luna piena. Rossa, quasi volesse piangere lacrime di sangue sulla
Terra. Notte di bufera, notte d’infausti
presagi, notte che funesterà d’incubi il sonno dei viventi e disperderà nel vento le preci dei morti.
Mi chiamano, supplicano di essere ascoltati, consolati, perfino
vendicati. Soltanto io posso udirne le voci confuse nel cupo brontolio dei
tuoni. Io, una
miserabile vecchia dimenticata dal mondo, possiedo la facoltà di parlare con le anime dei
trapassati.
Non so se sia un dono o se
rappresenti il mio purgatorio, l’unica
possibilità di espiare i peccati commessi,
ma non posso sottrarmi e nemmeno lo vorrei. In una notte che anche il più ubriaco dei clochard cercherebbe
riparo in qualche anfratto, sollevo le membra dal giaciglio, m’intabarro nel mantello color tenebra ed
esco. Non devo fare molta strada, dalla casupola assegnatami come guardiana del
cimitero al padiglione dov’è situata
la tomba fresca d’inumazione,
ma le violente raffiche di vento ostacolano il mio incedere e la pioggia gelida
penetra fin dentro le ossa.
“Loro” sono intorno a me; le grida disperate
mi turbinano in testa come insetti impazziti rinchiusi in una bottiglia: una
ridda di pianti, invocazioni, preghiere, in lingue che dovrebbero essermi
sconosciute e che invece comprendo senza difficoltà. Non ho
paura: sono i vivi a spaventarmi, non queste povere anime che anelano la pace.
Alcuni provano a trattenermi, a ghermire le vesti e i capelli, e sfogano la
frustrazione con lugubri lamenti che m’impietosiscono
fino alle lacrime. Tremo e sgrano tra le dita rattrappite le sfere del rosario
consunto; prego per loro, non posso fare altro, stanotte, non posso fermarmi né indugiare. Lei ha bisogno di me. È piccola, è sola, è
terrorizzata. Sento i singhiozzi convulsi, il suo invocare la mamma, e il mio
cuore sembra spezzarsi dalla pena. La stessa pena che mi ha straziato durante
il funerale nell’assistere
al dolore di una donna privata dell’affetto
più caro, il frutto delle sue
viscere. Hanno dovuto strapparla dalla bara e portarla via di peso, mentre si
dimenava e scalciava come una furia, gridando fino a perdere il fiato.
Sono arrivata, vedo la piccola
sepoltura sommersa di fiori strapazzati dal vento, la croce di marmo, l’angelo del dolore illuminato dai
bagliori rossastri della luna. Lei non c’è ma so
che non è lontana: la sento, sento che
ha freddo e paura. Mi avvicino alla tomba per distinguere la fisionomia nell’immagine funeraria, per leggere il nome
e l’età. È più piccola di quanto credessi: appena
cinque anni. Un’aureola
di ricci castani incornicia il visetto paffuto dagli occhi scuri e sorridenti. "Dormi in pace cullata dagli angeli", recita l’epitaffio. Ricordo i discorsi sussurrati
dagli amici e parenti presenti al funerale, che ho carpito mentre rassettavo i
vialetti del cimitero:
- Povera creatura… un fiore ancora in boccio strappato
alla vita. Investita da un’auto
proprio davanti alla sua casa, sotto gli occhi della madre. Era scesa dal
marciapiede per inseguire la palla sfuggitale di mano ed è stata travolta. È morta sul colpo, non se n’è nemmeno resa conto, per fortuna…
Per loro era una consolazione
che la piccola non avesse sofferto, ma io sono rabbrividita, nell’udire quelle parole. La bambina non si è accorta di nulla, non ha capito che cosa
le stesse accadendo, non sa di essere morta. Per questo è ancora qui, attaccata alla vita, a
invocare la mamma e cercare la sua palla. Potrebbe rimanere per sempre
prigioniera tra le lapidi di questo cimitero, come tutte le anime sciagurate
che non riescono a staccarsi dai ricordi terreni, dai sentimenti che hanno
provato in vita, le persone e le cose che hanno lasciato. Lei, però, è così piccola e innocente… devo fare qualcosa per aiutarla, non
posso tollerare di sentire il suo pianto notte dopo notte per il tempo che mi
rimarrà da vivere.
Mi siedo sulla lapide fra le
corone disfatte e aspetto, incurante del vento e della pioggia. Le nubi si sono
addensate in cumuli scuri che nascondono la luna; il buio è squarciato soltanto dal balenio delle
folgori. Provo a chiamare la bambina per nome, piano, scandendo le sillabe; al
terzo tentativo, mi risponde un singhiozzo sommesso. Guardo nella direzione
dalla quale mi sembra provenga e intravedo un’ombra
opalescente, semi nascosta da una scultura marmorea. La chiamo ancora, le dico
che va tutto bene, non deve avere paura, sono un’amica
della sua mamma e ho portato una cosa per lei. Mentre le parlo,
tiro fuori da sotto il mantello una palla colorata e la faccio rotolare sul
vialetto. La bambina emette un grido di gioia e corre incontro alla palla,
leggera come una farfalla nel suo abitino candido; poi si china e allunga le
braccia per prenderla, ma le piccole mani aperte stringono soltanto l’aria. Solleva gli occhi smarriti a
fissare il punto dal quale le arriva la mia voce; non sono sicura che mi veda,
ma riesce a sentirmi.
– Adesso
devi ricordare – mormoro,
suadente. – La mamma che grida di fermarti
e la macchina che ti arriva addosso…
È crudele
quello che sto facendo, preferirei morire piuttosto, ma è l’unica
maniera che ho per aiutarla. Lei rimane immobile per qualche istante con gli
occhi sbarrati, poi caccia un urlo e scoppia in un pianto disperato,
accasciandosi a terra. Lascio che si sfoghi, la blandisco con frasi
rassicuranti finché i
singhiozzi sfumano in un ansimare sommesso.
- Va tutto bene, tesoro, tra
poco sarà tutto finito – sussurro. – Adesso smetti di piangere, alzati e
guardati intorno. Dovresti vedere una luce…
La piccola ubbidisce, si tira
su e strofina le palpebre con gli indici delle manine strette a pugno, poi
spalanca gli occhi e fissa un punto lontano, in mezzo ai cipressi. La bocca si
allarga in un sorriso estasiato.
- Nonnina! – esclama, felice.
- Vai, piccola, corri dalla tua
nonna… - la incito.
Prima di scomparire nella luce,
si volta un attimo a guardarmi, e sono sicura che mi veda, perché posa un bacio sulle dita e lo soffia
verso di me.
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