Immagine web modificata,
«Guardalo:
è così da quando l’hanno portato qua, povera creatura…»
Gli
occhi di Chiara luccicano di lacrime trattenute a stento; con un movimento
della testa, accenna in direzione delle gabbie. Seguo il suo sguardo
distrattamente: ho i miei pensieri, oggi, e non sono affatto rosei.
«Ho
dovuto separarlo dagli altri» continua la giovane volontaria. «Non perché sia aggressivo,
anzi: se ne sta accucciato in un angolo, non mangia, non beve, non fa nulla per
ambientarsi. L’isolamento è l’unica maniera di proteggerlo, ma se va avanti
così…»
«Che
cosa gli è successo?» chiedo, sbirciando la scura massa di pelo buttata come un
sacco in fondo alla gabbia.
Il
cane è un meticcio di taglia media; sta raggomitolato, con la coda e la testa nascoste
tra le zampe. Non si muove, sembra quasi che non respiri.
Un
moto di compassione mi urta il petto. Sono anni che presto la mia opera di volontario
al canile, e non riesco a non lasciarmi coinvolgere. Vengo qua per pulire le gabbie
e i recinti ed eseguire piccole riparazioni. Dei cani, nutrirli e curarli, si
occupano altri, più qualificati di me. Come Chiara, che lavora otto ore al
giorno in una clinica veterinaria e ne trascorre quasi altrettante al canile, a
titolo gratuito. Ho conosciuto delle persone meravigliose, qui, anche se, negli
ultimi tempi, sono stato troppo preso dai miei problemi per curare le relazioni
sociali.
Osservo
la ragazza, forse per la prima volta da quando la conosco. Ha lo sguardo che
brilla e le guance arrossate. La voce trema di sdegno:
«La
solita storia: qualche “brava persona” l’ha lasciato qui, legato al cancello
con una corda. Nessun micro chip o altro segno d’identificazione. Uno dei tanti
casi di abbandono. Non sembra aver subito maltrattamenti, anche se è denutrito
e disidratato, ma è uno degli animali più traumatizzati che abbia mai visto. Se
non riesco a farlo mangiare da solo, sarò costretta a portarlo in clinica e
alimentarlo per flebo…» abbassa la testa, sospira.
Intuisco
le sue preoccupazioni. «Ti darò una mano per le spese» mi offro di slancio,
senza riflettere.
Ho
un lavoro precario, le rate del mutuo che mi strangolano e una ex compagna che,
proprio in questo momento, sta facendo le valigie. Oggi sono scappato per non
vederla mentre le preparava, e soprattutto per non trovarmi, ancora una volta,
nella condizione del “patetico fesso” che supplica l’amata di non abbandonarlo.
Credo di aver fatto tutto quello che era nelle mie possibilità, insistere mi
farebbe perdere anche la briciola di dignità che mi è rimasta. E non servirebbe
a nulla. È tutto il giorno che cerco di non pensarci e di stancarmi con lavori
pesanti, ma tra poco dovrò tornare a casa: un appartamento vuoto dove non ho
nessuna voglia di rientrare.
Guardo
di nuovo il cane: non si è mosso di un millimetro, sembra davvero morto.
Immagino come debba sentirsi, privato dei suoi affetti, lasciato da solo, al
buio e al freddo. Tradito e abbandonato dalle persone che amava e che credeva
lo amassero. Forse non ha più voglia di vivere. Io ho il cuore gonfio di sofferenza
e la mente ingombra di pensieri angosciosi, ma non ho mai provato il desiderio di
lasciarmi morire… invece, lui…
«È
una povera anima indifesa…» sussurro quasi a me stesso. «Ha paura, non riesce a
capire cosa sia successo, perché l’abbiano lasciato da solo in un posto che non
conosce. Magari sta aspettando che il suo padrone torni a prenderlo, ma non tornerà,
quel bastardo!»
Ho
alzato la voce senza rendermene conto. Chiara mi posa una mano sul braccio:
«Dai, adesso non pensarci e torniamo al lavoro, c’è ancora molto da fare. Più
tardi proverò di nuovo a fargli mangiare qualcosa.»
Si
allontana in direzione del recinto, dove una dozzina di cuccioli scorrazzano
vivaci. Gli uggiolii di contentezza, rivolti all’umana che porta la “pappa”, mi
scaldano il cuore. Guardo l’ora: comincia a farsi tardi; non ho nessuna fretta
di andarmene, ma tra poco calerà il sole e, se non mi sbrigo, non riuscirò a
completare la tabella di marcia che mi sono imposto. Devo ancora togliere le
foglie secche dal vialetto, ripulire lo sgambatoio dagli escrementi e riparare
uno strappo nella rete di recinzione.
Ben
più difficile sarà ricucire lo squarcio della mia anima. Per quanto mi sforzi,
non riesco a individuare il momento in cui è cominciata la fine; forse, preso dai
problemi della quotidianità, non mi sono reso conto che stavo perdendo la cosa
più importante. Delle mie innumerevoli colpe, che lei mi ha vomitato addosso in
un elenco impietoso, la principale è stata la presunzione di credere che
andasse tutto bene, che io le bastassi come lei bastava a me. Sono stato
superficiale, cieco, ottuso e anche… com’è che ha detto? Ah, sì, “uno sporco egoista”.
La
cosa che mi fa più male è l’aver dovuto constatare di essere una schifezza
d’individuo, o almeno che lei mi veda come tale. Se mi avesse confessato una
sbandata sentimentale, avrei potuto cercare di lottare, ma il disprezzo che ho
letto nei suoi occhi mi ha annientato. Mi sono afflosciato su una sedia,
ammutolito da una lama di dolore che mi tagliava il respiro, ascoltando i suoi
passi concitati in quella che era stata la nostra stanza da letto.
Quando
ho sentito aprire i cassetti e le ante dell’armadio, ho capito. Con uno sforzo mi
sono tirato su e sono uscito. Non avrei sopportato di vederla andare via. Sono
venuto al canile, l’unico posto dove potessi rifugiarmi, dove quello che faccio
è apprezzato e ricompensato da qualche sorriso e dalla muta riconoscenza di
tante piccole creature pelose. Loro non fanno domande, non recriminano,
chiedono solo un po’ d’amore e lo restituiscono moltiplicato per mille.
Guardo
di nuovo lo sfortunato cane, immobile in posizione fetale. Non riesco a
staccarmi dalla gabbia. Mi avvicino e modulo con le labbra un fischio leggero.
Nessun movimento da parte dell’animale, ma credo d’intravvedere un impercettibile
fremito che gli percorre la schiena. Afferro le sbarre con entrambe le mani e
provo a chiamarlo: «Ehi, piccolo, vieni qua…».
Mi
risponde un guaito lamentoso. È flebile, appena un sussurro, ma sono sicuro di
averlo sentito. Esulto di gioia. «Bravo, cucciolo, vieni…» insisto.
Senza
sollevare il muso, il cane comincia a strisciare sul ventre, aiutandosi con le
zampe. Attendo col fiato sospeso che sia abbastanza vicino, poi allungo una
mano all’interno della gabbia e gliela poso sulla testa in una carezza
delicata.
«Bravo,
sei proprio un bravo cagnolino» sussurro.
Con
l’altra mano tiro fuori dalla tasca un biscotto, uno di quelli che offro di
nascosto ai miei piccoli amici, sfidando i rimbrotti di Chiara e degli altri
volontari che mi accusano di viziarli troppo. Tenendolo nel palmo aperto,
glielo avvicino alla bocca. Lo annusa col naso umido e fremente, poi lo
inghiotte con un sospiro e continua a leccarmi la mano.
Non
resisto e apro la gabbia. Il cane scatta sulle zampe come una molla e mi salta
in braccio, facendomi vacillare per la sorpresa. Stringo forte tra le braccia
il corpicino peloso, mentre lui mi lambisce la faccia con la lingua. I nostri
occhi s’incontrano: i suoi sono grandi, color nocciola, pieni d’implorante speranza.
Chiara
ci trova così, abbracciati, io che lo blandisco con parole rassicuranti e lui
che guaisce e mi lecca dappertutto.
«Non
ci posso credere… come hai fatto?» chiede.
«Non
lo so, ma io questo botolo peloso me lo porto a casa» affermo, deciso, «non
voglio lasciarlo un’altra notte rinchiuso in questa prigione.»
«Se
mi aspetti, vengo con voi. Non sai niente di cani: bisogna fargli un bagno e
dargli da mangiare le cose giuste. E domani me lo porti all’ambulatorio per gli
accertamenti clinici necessari. Se vuoi adottare un cane, devi essere
consapevole…»
«Ehi,
signorina, calmati,» la freno, «farò tutto quello che sarà necessario, stai tranquilla.
Sono felice se vieni a casa con noi, sei una cara amica, ma per stasera… che ne
diresti di hamburger e patatine per tutti e tre? Temo di non avere nient’altro
di commestibile.»
Chiara
scoppia a ridere, e solo adesso mi accorgo di quanto sia bella.
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