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domenica 15 marzo 2015

Chi ama non abbandona


Immagine web modificata,

«Guardalo: è così da quando l’hanno portato qua, povera creatura…»
Gli occhi di Chiara luccicano di lacrime trattenute a stento; con un movimento della testa, accenna in direzione delle gabbie. Seguo il suo sguardo distrattamente: ho i miei pensieri, oggi, e non sono affatto rosei.  
«Ho dovuto separarlo dagli altri» continua la giovane volontaria. «Non perché sia aggressivo, anzi: se ne sta accucciato in un angolo, non mangia, non beve, non fa nulla per ambientarsi. L’isolamento è l’unica maniera di proteggerlo, ma se va avanti così…»
«Che cosa gli è successo?» chiedo, sbirciando la scura massa di pelo buttata come un sacco in fondo alla gabbia.
Il cane è un meticcio di taglia media; sta raggomitolato, con la coda e la testa nascoste tra le zampe. Non si muove, sembra quasi che non respiri.
Un moto di compassione mi urta il petto. Sono anni che presto la mia opera di volontario al canile, e non riesco a non lasciarmi coinvolgere. Vengo qua per pulire le gabbie e i recinti ed eseguire piccole riparazioni. Dei cani, nutrirli e curarli, si occupano altri, più qualificati di me. Come Chiara, che lavora otto ore al giorno in una clinica veterinaria e ne trascorre quasi altrettante al canile, a titolo gratuito. Ho conosciuto delle persone meravigliose, qui, anche se, negli ultimi tempi, sono stato troppo preso dai miei problemi per curare le relazioni sociali.
Osservo la ragazza, forse per la prima volta da quando la conosco. Ha lo sguardo che brilla e le guance arrossate. La voce trema di sdegno:
«La solita storia: qualche “brava persona” l’ha lasciato qui, legato al cancello con una corda. Nessun micro chip o altro segno d’identificazione. Uno dei tanti casi di abbandono. Non sembra aver subito maltrattamenti, anche se è denutrito e disidratato, ma è uno degli animali più traumatizzati che abbia mai visto. Se non riesco a farlo mangiare da solo, sarò costretta a portarlo in clinica e alimentarlo per flebo…» abbassa la testa, sospira.
Intuisco le sue preoccupazioni. «Ti darò una mano per le spese» mi offro di slancio, senza riflettere.
Ho un lavoro precario, le rate del mutuo che mi strangolano e una ex compagna che, proprio in questo momento, sta facendo le valigie. Oggi sono scappato per non vederla mentre le preparava, e soprattutto per non trovarmi, ancora una volta, nella condizione del “patetico fesso” che supplica l’amata di non abbandonarlo. Credo di aver fatto tutto quello che era nelle mie possibilità, insistere mi farebbe perdere anche la briciola di dignità che mi è rimasta. E non servirebbe a nulla. È tutto il giorno che cerco di non pensarci e di stancarmi con lavori pesanti, ma tra poco dovrò tornare a casa: un appartamento vuoto dove non ho nessuna voglia di rientrare.
Guardo di nuovo il cane: non si è mosso di un millimetro, sembra davvero morto. Immagino come debba sentirsi, privato dei suoi affetti, lasciato da solo, al buio e al freddo. Tradito e abbandonato dalle persone che amava e che credeva lo amassero. Forse non ha più voglia di vivere. Io ho il cuore gonfio di sofferenza e la mente ingombra di pensieri angosciosi, ma non ho mai provato il desiderio di lasciarmi morire… invece, lui…
«È una povera anima indifesa…» sussurro quasi a me stesso. «Ha paura, non riesce a capire cosa sia successo, perché l’abbiano lasciato da solo in un posto che non conosce. Magari sta aspettando che il suo padrone torni a prenderlo, ma non tornerà, quel bastardo!»
Ho alzato la voce senza rendermene conto. Chiara mi posa una mano sul braccio: «Dai, adesso non pensarci e torniamo al lavoro, c’è ancora molto da fare. Più tardi proverò di nuovo a fargli mangiare qualcosa.»
Si allontana in direzione del recinto, dove una dozzina di cuccioli scorrazzano vivaci. Gli uggiolii di contentezza, rivolti all’umana che porta la “pappa”, mi scaldano il cuore. Guardo l’ora: comincia a farsi tardi; non ho nessuna fretta di andarmene, ma tra poco calerà il sole e, se non mi sbrigo, non riuscirò a completare la tabella di marcia che mi sono imposto. Devo ancora togliere le foglie secche dal vialetto, ripulire lo sgambatoio dagli escrementi e riparare uno strappo nella rete di recinzione.
Ben più difficile sarà ricucire lo squarcio della mia anima. Per quanto mi sforzi, non riesco a individuare il momento in cui è cominciata la fine; forse, preso dai problemi della quotidianità, non mi sono reso conto che stavo perdendo la cosa più importante. Delle mie innumerevoli colpe, che lei mi ha vomitato addosso in un elenco impietoso, la principale è stata la presunzione di credere che andasse tutto bene, che io le bastassi come lei bastava a me. Sono stato superficiale, cieco, ottuso e anche… com’è che ha detto? Ah, sì, “uno sporco egoista”.
La cosa che mi fa più male è l’aver dovuto constatare di essere una schifezza d’individuo, o almeno che lei mi veda come tale. Se mi avesse confessato una sbandata sentimentale, avrei potuto cercare di lottare, ma il disprezzo che ho letto nei suoi occhi mi ha annientato. Mi sono afflosciato su una sedia, ammutolito da una lama di dolore che mi tagliava il respiro, ascoltando i suoi passi concitati in quella che era stata la nostra stanza da letto.
Quando ho sentito aprire i cassetti e le ante dell’armadio, ho capito. Con uno sforzo mi sono tirato su e sono uscito. Non avrei sopportato di vederla andare via. Sono venuto al canile, l’unico posto dove potessi rifugiarmi, dove quello che faccio è apprezzato e ricompensato da qualche sorriso e dalla muta riconoscenza di tante piccole creature pelose. Loro non fanno domande, non recriminano, chiedono solo un po’ d’amore e lo restituiscono moltiplicato per mille.
Guardo di nuovo lo sfortunato cane, immobile in posizione fetale. Non riesco a staccarmi dalla gabbia. Mi avvicino e modulo con le labbra un fischio leggero. Nessun movimento da parte dell’animale, ma credo d’intravvedere un impercettibile fremito che gli percorre la schiena. Afferro le sbarre con entrambe le mani e provo a chiamarlo: «Ehi, piccolo, vieni qua…».
Mi risponde un guaito lamentoso. È flebile, appena un sussurro, ma sono sicuro di averlo sentito. Esulto di gioia. «Bravo, cucciolo, vieni…» insisto.
Senza sollevare il muso, il cane comincia a strisciare sul ventre, aiutandosi con le zampe. Attendo col fiato sospeso che sia abbastanza vicino, poi allungo una mano all’interno della gabbia e gliela poso sulla testa in una carezza delicata.
«Bravo, sei proprio un bravo cagnolino» sussurro.
Con l’altra mano tiro fuori dalla tasca un biscotto, uno di quelli che offro di nascosto ai miei piccoli amici, sfidando i rimbrotti di Chiara e degli altri volontari che mi accusano di viziarli troppo. Tenendolo nel palmo aperto, glielo avvicino alla bocca. Lo annusa col naso umido e fremente, poi lo inghiotte con un sospiro e continua a leccarmi la mano.
Non resisto e apro la gabbia. Il cane scatta sulle zampe come una molla e mi salta in braccio, facendomi vacillare per la sorpresa. Stringo forte tra le braccia il corpicino peloso, mentre lui mi lambisce la faccia con la lingua. I nostri occhi s’incontrano: i suoi sono grandi, color nocciola, pieni d’implorante speranza.
Chiara ci trova così, abbracciati, io che lo blandisco con parole rassicuranti e lui che guaisce e mi lecca dappertutto.
«Non ci posso credere… come hai fatto?» chiede.
«Non lo so, ma io questo botolo peloso me lo porto a casa» affermo, deciso, «non voglio lasciarlo un’altra notte rinchiuso in questa prigione.»
«Se mi aspetti, vengo con voi. Non sai niente di cani: bisogna fargli un bagno e dargli da mangiare le cose giuste. E domani me lo porti all’ambulatorio per gli accertamenti clinici necessari. Se vuoi adottare un cane, devi essere consapevole…»
«Ehi, signorina, calmati,» la freno, «farò tutto quello che sarà necessario, stai tranquilla. Sono felice se vieni a casa con noi, sei una cara amica, ma per stasera… che ne diresti di hamburger e patatine per tutti e tre? Temo di non avere nient’altro di commestibile.»
Chiara scoppia a ridere, e solo adesso mi accorgo di quanto sia bella.    

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