(racconto-incipit)
Già il nome era insolito, anche se
in pochi lo ricordavano: solo i più anziani del paese, che l’avevano conosciuta
da giovane. Si diceva che fosse bellissima ma selvatica come una gatta
randagia, e che per quello nessun uomo l’avesse voluta per moglie. La
chiamavano “gattara” e “signora dei gatti”; qualche ragazzino impietoso le
strillava dietro l'epiteto di “vecchia strega”. Alcuni la deridevano, altri se
ne sentivano intimoriti, i più la ignoravano. Lei non se ne curava e andava in
giro a testa alta, trascinando per le vie polverose l’esile corpo ossuto,
deformato dagli anni e dalla fatica, infagottato in tetre gramaglie.
Non parlava mai
con nessuno e se qualche temerario incrociava i suoi occhi, distoglieva subito
lo sguardo, atterrito, facendosi il segno della croce. Erano strani e
inquietanti, quegli occhi: uno azzurro, limpido come il cielo, l’altro scuro e
limaccioso, come il fango della palude. L’iride chiara ispirava dolcezza e
serenità, ma la luce torva che balenava nell’altra minacciava oscure
maledizioni. La evitavano tutti, per quanto potessero, ma a lei non importava:
gli esseri umani le erano indifferenti, amava soltanto i suoi gatti e viveva
per loro.
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